Irène Dubœuf è una poetessa francese, autrice delle raccolte Le pas de l’ombre, Encres vives 2008; La trace silencieuse, Voix d’encre 2010; Triptyque de l’aube, Voix d’encre 2013; Roma, Encres vives 2015; Cendre lissée de vent, Unicité 2017; Bords de Loire, libro di artista collezione Daniel Leuwers 2019; Effacement des seuils, Unicité 2019; Volcan, libro «povero» collezione Daniel Leuwers 2019; Un rivage qui embrase le jour, Éditions Du Cygne 2021. Critica letteraria e traduttrice, collabora con riviste sia francesi che italiane. Nel 2020 sono apparse le sue traduzioni di due libri di Amedeo Anelli: Neige pensée, edizioni Ticinum e L’Alphabet du monde, Éditions du Cygne (Parigi) e, nel 2021, Krankenhaus suivi de Carnet hollandais et autres inédits, di Luigi Carotenuto, sempre per le Éditions du Cygne. Lo scrittore e poeta Elio Pecora ha tradotto e pubblicato diversi suoi testi (sulla rivista Poeti e poesia, aprile 2021). Emilio Martin Paz Panama l’ha tradotta e pubblicata per la rivista peruviana Kametsa. Luigi Carotenuto ha tradotto diverse sue poesie: una è stata pubblicata sul quotidiano nazionale La Repubblica (redazione di Napoli) a dicembre 2021. Altre traduzioni delle sue opere sono in corso in Italia, in Tunisia e in America latina.
Qual è stata la scintilla che ha portato il tuo “Un rivage qui embrasse le jour”?
Nel titolo, non ho usato il verbo “embrasser” con la doppia “s” (abbracciare) come lo scrivi tu ma “embraser” che significa infiammare. Comunque capisco che tu abbia pensato a “embrasser”, perché la forma tanto fonica quanto grafica dei due verbi è vicinissima e non ho scelto questa parola per caso. Infatti, la raccolta affonda le sue radici nel potere del linguaggio che “brucia” e conduce, tramite l’amore, verso la luce. Quindi “scintilla” è la parola giusta.
Questa scintilla è saltata fuori dalle pagine di un libro di filosofia di Stéphane Sangral, poeta, filosofo e psichiatra. Un libro dal titolo provocatorio: Préface à ce livre (Prefazione a questo libro). Un libro che non esiste, forse il libro perfetto a cui tende ogni autore, il libro assoluto, partito dal niente e nel quale il soggetto è invisibile: «Le opere più belle sono quelle dove c’è meno materia; più l’espressione si avvicina al pensiero, più la parola si fonde e scompare, più è bello”[1] oppure dentro il quale l’autore sparisce: “L’opera pura implica la scomparsa elocutoria del poeta che cede l’iniziativa alle parole[2]”.
Il libro di Sangral è composto di frasi a specchio che si autogenerano per poi subito dopo distruggersi, dato che ogni verità contiene il suo contrario, un libro nel quale il linguaggio sembra rinviare solo a se stesso, un libro che, come tutti quelli dell’autore, ci porta al limite del vuoto. Una scrittura cupa e malinconica che nasconde la ricerca incessante della luce e della Verità, nella quale il vuoto appare necessario, anzi fondamentale, perché fa sorgere energia e creazione; un libro che non è sinonimo del nulla ma dell’infinito. E a mano a mano che le parole girano e c’intrappolano in un ciclo senza fine, entrano in risonanza con il lettore e si alza una voce poetica, unica via per restare vivi.
I primi versi di Un rivage qui embrase le jour sono nati mentre avevo in mano questo libro che, per caso, ho aperto su una pagina che mi ha lasciato sbalordita:
« Ma main ouvre le livre.
Je lis :
Ouvrir ce livre à la page de ce texte.
Les mots s’arrêtent sur mes lèvres.
un monde s’ouvre
surgit un rivage qui embrase le jour.
L’écriture peut-elle provoquer le hasard ? »
“La mia mano apre il libro.
Leggo:
Aprire questo libro alla pagina di questo testo.
Le parole ammutoliscono sulle mie labbra
un mondo si apre
sorge una riva che infiamma il giorno.
La scrittura può provocare il caso?”
Traduzione dal francese: Amedeo Anelli e Gianluigi Lisetti.
In che modo la vita diventa linguaggio?
“Ribadisco che la poesia sta nell’uomo, nel risultato, nel contatto con gli avvenimenti, con le cose” ci dice Pierre Reverdy. Espressione della vita profonda, la poesia è ovviamente legata alle emozioni vissute dall’autore. I versi nascono più o meno inconsapevolmente, il poeta non decide di scrivere, è un impulso, uno slancio… ma quest’emozione originale è soltanto una materia prima, deve essere “bruciata” perché la poesia possa trasmettere un sentimento a chi la legge.
L’emozione poetica, nel senso etimologico della parola poïèsis, presuppone un’autentica creazione che non è altro che la trasformazione degli affetti passivamente vissuti in un’espressione attiva. “Mi sono espresso male dicendovi che non si deve scrivere con il cuore. Ho voluto dire: non mettere in scena la propria personalità. Credo che la grande arte sia scientifica e impersonale”, scrive Flaubert.[4] Una tendenza sempre presente nella poesia contemporanea sia francese che italiana (recentemente, Antonio Devicienti[5] ha scritto nella nota critica a Krankenhaus di Luigi Carotenuto: “reticente fino al silenzio, ma presente e potente proprio nella sua reticenza che è rifiuto di ogni abbandono sentimentalistico e soggettivo – il soggetto, pur presente, lo è il minimo indispensabile”.
Infatti, per diventare poesia, questo slancio iniziale va trasformato in una specie di trasmutazione alchemica che può essere più o meno lunga. Distillazione per alcuni, fuoco per altri… “il poeta è un forno che brucia la realtà”[6].
Se la vita diventa linguaggio, si tratta ovviamente di un linguaggio specifico. La poesia riabilita il significante e non teme di fare scoppiare la relazione tra gli assi sintagmatico e paradigmatico. “La poesia è una camera oscura dove le parole urtano in girotondo, folli. Collisioni aeree: [le parole] si accendono reciprocamente dai loro incendi e vanno in fiamme.[7]” Per Jean-Paul Sartre, i poeti sono uomini che rifiutano di usare il linguaggio comune, sono “maghi” che danno maggiore importanza all’estetica e alla sonorità di una parola che al suo senso stesso.
La poesia è (anche) la lingua dell’invalicabile?
“Lingua dell’invalicabile” dal punto di vista del lettore? Nel senso che la poesia sarebbe un modo di espressione specifico di un gruppo di persone? Ciò significa che quelli che non fanno parte del gruppo non possono capirla… oppure dal punto di vista del poeta nel senso che la poesia potrebbe essere l’unico modo di oltrepassare la lingua stessa?
Non so se parlare di “lingua” sia giusto. La poesia contemporanea è figlia della libertà. Non segue regole ma invece le rovescia. Permette di dire tutto, soprattutto cose che non si possono dire col linguaggio comune. Attraverso immagini e collegamenti fulminanti che condensano l’esperienza emotiva del mondo, svelando i rapporti intimi e segreti tra le cose, il poeta “dona da vedere” per riprendere l’espressione di Paul Éluard. Più di una lingua, sarebbe un linguaggio, ma non ne sono nemmeno sicura… “Il linguaggio è una legislazione e la lingua ne è il codice[8]”. La poesia va oltre il linguaggio.
Forse perché non è comunicazione, ma piuttosto comunione di anima con anima. Qui sta il potere della parola poetica. La sua intensità (creata dalle immagini, dallo stile) dà corpo al pensiero, crea la presenza nell’assenza, rende sensibile l’impalpabile, e ci fa penetrare nel profondo dell’inafferrabile con un cuore da bambino. “Verrà il tempo di un linguaggio universale” scriveva Rimbaud[9]. La poesia, particolarmente quella contemporanea, parla un linguaggio universale.
La forma quanto incide sulla “verità” della parola poetica?
Ogni poeta cerca la verità della scrittura. “La forma esce dal fondo, come il calore dal fuoco.”[10] Essenziale, la forma è la carne delle parole. Penso all’importanza tipografica, alla lunghezza dei versi, dei bianchi lasciati nella pagina, e anche, nei testi di alcuni autori, all’uso del colore. Quando Philippe Jaccottet scrive: “Anche se ripeterò “sangue” dall’alto in basso della pagina, non ne sarà macchiata, né io ferito”[11] dimostra che né il significante né il significato bastano. La forma riesce dunque dove fallisce la parola: con una impaginazione concepita come una regia, il poeta Stéphane Sangral ci mostra una ferita che trasuda, il sangue fuoriesce dal testo e va fino a macchiare la pagina seguente! [12]
Tuttavia, se la poesia è vera, la verità dell’autore non si rivela sempre agli occhi del lettore. Perché ogni lettore proietterà la propria verità. Inoltre mi sembra importante sottolineare che se la forma influisce sulla verità della scrittura, la scrittura invece avvicina l’autore alla Verità.
Infatti, lo sguardo del poeta penetra nel cuore delle cose. Il poeta vede l’invisibile dentro il visibile. Scrivere poesia ha qualcosa a che vedere con un’iniziazione.
Chiuderei con una citazione di Eugène Guillevic: “La poesia è l’unico modo per accostare con le parole, quando si sa fare, il suono interiore di ogni reale.”[13]
Immagina di dover dare delle “istruzioni” essenziali per scrivere una poesia, quali daresti?
Molti sono i poeti che hanno scritto sulla poesia, ciò che dovrebbe essere o non essere… Non voglio dare istruzioni se non dire che il poeta possiede il bene più prezioso: le parole. Loro sono la sua libertà. Bisogna lasciarle libere di esistere e di associarsi, alla maniera delle affinità elettive, “offrire parole senza recinto”[14], e ovviamente, consigliare di essere se stessi, rimanere umili e soprattutto leggere gli altri, le voci del passato e quelle di oggi, leggere autori che hanno parlato della poesia. Quando ho scritto le mie prime poesie ho imparato da Reverdy che la poesia è dappertutto e in ogni cosa, da Jaccottet, che deve essere concisa, densa e semplice, da René Char che “il poeta si riconosce dalla quantità di pagine insignificanti che non scrive” (questo aforisma mi ha fatto buttare via molti versi, ma quelli che ho deciso di tenere sono stati tutti pubblicati! Vale a dire che la formula è efficace!)
Con un tuo verso “Dans les mots je cherche refuge.”, ti chiedo: qual è stato, ad oggi, il dono più prezioso ricevuto in dono dalla poesia?
La poesia, essendo l’infanzia dello sguardo, appare come un rifugio, nel senso di un rifiuto delle prigioni mentali in cui la società vorrebbe rinchiuderci. Il dono più prezioso? Magari la libertà e soprattutto la luce… Le mie prime poesie hanno preso forma nell’ombra ma la scrittura mi ha permesso di intravedere la luce e mi ha fatto capire che l’ombra è necessaria alla luce. Basta guardare il cielo: più la notte è nera, più si vedono le stelle. “È il disastro oscuro che porta la luce.”[15]
Pensando alla tua attività di traduttrice ti chiedo: pensi che la poesia è realmente traducibile? E se lo è, è più corretto parlare di traduzione o di riscrittura?
Traduzione non è opposta a riscrittura… “Tradurre una poesia significa scrivere una poesia, e deve essere questo prima di tutto” dice Henri Meschonic. Le parole – e ovviamente le espressioni – non hanno il loro equivalente identico in un’altra lingua, quindi tradurre è necessariamente legato alla perdita, ma come scriveva Italo Calvino “tradurre è il vero modo di leggere un testo.”[16]
La traduzione di poesia è il tipo di traduzione più difficile che vi sia. Perpetua ricerca di equilibrio tra suono e senso: “occorre non solo conoscere la lingua ma sapere entrare in contatto con lo spirito della lingua, lo spirito delle due lingue, sapere come le due lingue possono trasmettersi la loro essenza segreta”[17] , trovare l’accordo più giusto tra ciò che dice l’autore, il modo in cui lo dice, e la conversione nella propria lingua con l’aiuto della propria sensibilità. Questo è il risultato di un “Io che si è aperto” direbbe Benveniste. Aprirsi all’altro restando se stesso. Fare incessanti andate e ritorni tra due lingue, due culture, due poeti.
Il traduttore letterario è colui che mette in gioco se stesso per tradurre l’intraducibile. Cerca di inserire i propri passi in quelli dell’autore. Fare di nuovo il percorso per provare a percepire le impressioni e le sensazioni che sono state all’origine del testo. In un certo modo “fare l’amore con la musa di un altro” come lo dice lo scrittore e docente Pierre Vinclair. Mi piacerebbe appropriarmi di quest’immagine che trovo assolutamente giusta, però non esistendo il maschile di musa, preferisco citare Marilyne Bertoncini, la quale ha trovato un paragone pieno di femminilità per parlare delle sue traduzioni: secondo lei, tradurre si apparenta a “una gestazione per conto di altri”[18]. Si capisce che tradurre è un atto che impegna profondamente quello(a) che lo esegue. È un’esperienza intensa che va oltre la riscrittura di un testo. È una comunicazione privilegiata con l’opera di un(a) poeta, è un dono di parole: il traduttore/la traduttrice fa esplodere le frontiere, quelle geografiche, ma anche quelle interiori.
Traduco prioritariamente autori vivi (posso così raccogliere il loro parere e limitare il rischio di errore di interpretazione!). Ho tradotto poesie di diversi autori italiani nell’ambito della pubblicazione dei loro libri, per accompagnare note di lettura, ma mi piace particolarmente lavorare su raccolte complete di uno stesso autore, un lavoro che permette un approccio molto più fine e completo, l’interesse principale della traduzione essendo la scoperta profonda di un’altra scrittura, fonte di arricchimento poetico, intellettuale e culturale.
Così ho tradotto e pubblicato Neige pensée (Ticinum edizioni 2020) da (Neve pensata, Mursia 2017), Contrapunctus (LietoColle 2012 ), degli inediti, raccolti sotto il titolo L’alphabet du monde, (éditions du Cygne, Paris 2020) e nel corso di quest’anno 2022 dovrebbero uscire presso la casa editrice Ticinum Quatuors (Quartetti, Ticinum edizioni 2021) di Amedeo Anelli. Sto lavorando anche alla traduzione dei versi di Luigi Carotenuto con cui ho già fatto un primo libro: Krankenhaus suivi de Carnet hollandais et autres inédits, éditions du Cygne, Paris 2021.
Per concludere salutando i nostri lettori, ti invito a scegliere una tua poesia dal libro “Un rivage qui embrase le jour” – (riportala gentilmente con accanto la tua traduzione in italiano, se lo desideri) – e, nel contempo, ti invito a portarci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.
È sempre difficile isolare una poesia dalle mie raccolte. Scrivo testi brevissimi che sono tutti collegati insieme. Quindi, per l’EstroVerso, propongo questi versi tratti dalla prima parte della raccolta, intitolata Fendere il buio: ci si ritrova il mio cammino di scrittura e la perpetua ricerca della luce:
Dehors, la pluie
la mort
et le souvenir des fleurs.
Les bras chargés de roses d’encre
de bouts d’histoires qui mendient la lumière
j’écris : Attendre que les mots
entrouvrent l’horizon.
Écrire
jusqu’à l’extrémité du langage
approcher le Réel
fendre le noir.
Tu envies soudain le vol de l’oiseau.
Un rivage qui embrase le jour, Éditions du Cygne, Paris 2021 p.16-17
Fuori, la pioggia
la morte
e il ricordo dei fiori.
Le braccia colme di rose d’inchiostro,
pezzi di storie che mendicano luce
scrivo: Attendere che le parole
socchiudano l’orizzonte.
Scrivere
fino all’estremo del linguaggio
avvicinarsi al reale
fendere il buio
invidi all’improvviso il volo dell’uccello.
Un rivage qui embrase le jour, Éditions du Cygne, Parigi 2021, pp.16-17
Traduzione dal francese: Francesca Del Moro.
Ho scritto questi versi durante il secondo lockdown (autunno 2020), molto più difficile da sopportare del primo. Un mio caro amico era morto di Covid da sei mesi e mia madre stava per morire… e pensavo ai fiori della primavera passata, una primavera particolare in cui la morte che ci minacciava tutti faceva sentire l’urgenza assoluta di vivere, una primavera che fu anche sinonimo di rinascita della natura e dell’umanità (mai c’erano stati tanti fiori nei giardini, nella città gli scoiattoli correvano sui marciapiedi e persone sconosciute si salutavano, si parlavano), una parentesi strana e intensa che malgrado la situazione ci faceva sentire vivi.
[1] « Les œuvres les plus belles sont celles où il y a le moins de matière; plus l’expression se rapproche de la pensée, plus le mot colle dessus et disparaît, plus c’est beau … », Flaubert, Lettera a Louise Collet
[2] « L’œuvre pure implique la disparition élocutoire du poète, qui cède l’initiative aux mots », Stéphane Mallarmé, Vers et prose Divagation première, Perrin et Cie, 1893 (pp. 172-194)
[3] Stéphane Sangral, Préface à ce livre, éditions Galilée 2019, p. 59
[4] Gustave Flaubert, Lettera a Louise Colet, 29 maggio 1852
[5] Avia Lepsius, blog letterario del critico Antonio Devicienti
[6] “Le poète est un four à brûler le réel” Pierre Reverdy, Le gant de crin Plon 1927 pp. 7-8
[7] « Le poème est une chambre obscure où les mots se cognent en ronde, fous. Collisions dans les airs : ils s’allument réciproquement de leurs incendies et tombent en flamme. » Jean-Paul Sartre, Orphée Noir, Situation III, 1948
[8] Da R. Barthes, Lezione, Einaudi, Torino, 1981
[9] “Le temps d’un langage universel viendra” Rimbaud, lettera a Paul Demeny, 15 maggio 1871
[10] Gustave Flaubert, Lettera a Louise Colet, 29 mai 1852
[11] « J’aurai beau répéter “sang” du haut en bas de la page, elle n’en sera pas tachée, ni moi blessé », Philippe Jaccottet, À la lumière d’hiver, L’encre serait de l’ombre, Gallimard 2011
[12] Stéphane Sangral, Infiniment au bord, Galilée 2020, pp. 62-63
[13] « La poésie est le seul moyen d’aborder par les mots, quand on sait le faire, le son intérieur de tout réel. » Eugène Guillevic
[14] Philippe Mathy, Dans le vent pourpre, L’herbe qui tremble 2021
[15] Maurice Blanchot, L’Écriture du désastre, Gallimard 1980
[16] Calvino, 1982, Tradurre è il vero modo di leggere un testo in Saggi. 1945-1985, a cura di M. Barenghi, Mondadori, II, pp. 1825-1831
[17] Calvino, 1982, Tradurre è il vero modo di leggere un testo in Saggi. 1945-1985, a cura di M. Barenghi, Mondadori, II, pp. 1825-1831
[18] « Tu n’as pas eu le choix du thème, mais l’objet que tu produis a une existence propre, et un devenir distincts de celui de son jumeau – et tu l’as « porté » comme on porte un enfant – tiens : peut-être une sorte de gestation pour autrui ? » intervista di Marilyne Bertoncini da Carole Mesrobian, Recours au poème, 06/03/2021