Commentario a una specie di gioia (Oèdipus edizioni, 2021, pp. 88, euro 12) è il più recente lavoro poetico di Antonio Trucillo. Un libro aguzzo, trasversale, disorientante. Un libro, dunque, felicemente difficile: cioè poco propenso – per fortuna del lettore – alla mediazione parafrastica o alla semplificazione riassuntiva (impossibile, d’altronde, per ogni autentica scrittura poetica). Con un linguaggio sempre mosso, “altro” e visionario, elusivo e cangiante, Trucillo costruisce un commentario (ma chi è, davvero, il testimone che commenta o che crede di aver visto ciò che racconta?) irreale e sospeso, ricco di impasti espressivi sorprendenti e di lampi ininterrotti di acuta densità visionaria. La narrazione è, infatti, continuamente percorsa da interne lacerazioni e da arditi strappi di senso, non di rado accompagnati da vaghi e misteriosi toni di natura gnomica. Tutto si svolge come nel chiuso corpo di un labirinto che ad ogni passo moltiplica o interrompe, sconcertandolo e deviandolo in modo incessante, il viaggio del lettore, invitato (anzi, sfidato) senza tregua alla formulazione di una risposta provvisoria, al discioglimento degli enimmi costantemente proposti: «mai altrove mantello della sera, / quante focaie le lacrime più tardi» (p.32). È in questo libro, allora, una drammaturgia dell’inverosimile e del turbamento che fa di Trucillo un osservatore capace di uno sguardo potentemente straniato, la cui lingua poetica si mostra come un parallelo universo a sé stante, dove sempre le immagini appaiono travestite o rovesciate, gli oggetti trasmutati, le figure umane ridisegnate o velate o rimodellate secondo un ordine iperbolico e frastornante: una fittissima casa degli specchi che, se visitata, deforma o raddoppia la proiezione delle presenze in essa accolte.
La prospettiva della scrittura di Trucillo è, allora, febbrile e temeraria.
Qui, il mondo narrato agisce e si articola come un linguaggio rinnovato, ossimorico, spericolato. E, in ogni testo, la parola invade e travolge l’immagine, la conturba e la riscrive, ridisegnandone il senso, minandone l’equilibrio, capovolgendo o dissipando le sue certezze. Lo stesso simulacro della realtà, così scrutato, si nutre senza sosta di folgorazioni oniriche e stuporose, in cui l’affabulazione intreccia, e fervidamente fa convivere, l’assurdo col quotidiano, l’immaginoso col vero, il tempo tagliato dalla morte e l’inquieta speranza di una invincibile cancellazione della propria identità.