La misura del tempo: ‘Pruvulazzu’ di Renato Pennisi

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Non c’è misura del tempo più millimetrica del pruvulazzu; ovverosia, per quelli oltre lo stretto di Messina, della ‘polvere’. È questa verità, tanto evidente quanto quotidianamente rimossa, che dà linfa al libro di poesie dialettali del catanese Renato Pennisi (classe 1957), edito per i tipi della novarese Interlinea: Pruvulazzu, appunto.

Ma cogliere a occhio nudo i granelli di polvere che si depositano strato su strato sulle cose non è da tutti; occorre infatti uno sguardo discreto che sappia aderire alla realtà senza invaderla, che le dia un senso senza snaturarla. In altre parole, lo sguardo di un poeta. E Pennisi poeta lo è davvero, a suo agio tanto nel verso in lingua (come nel precedente La notte, pubblicato sempre da Interlinea) quanto in quello dialettale, come in questo caso, nonostante l’ironica professione di understatement come nella metapoetica Parola dell’ultima sezione: «Mi la jittanu di ’n coddu / e mi nn’addugnu  sulu ura?» (“Me l’hanno tirata addosso / e me ne accorgo solo adesso?”).

In verità la vocazione poetica, cioè linguisticamente creatrice, è ben evidente già nei testi della prima sezione che dà il titolo alla silloge, in cui l’io poetante, posto dinanzi a uno «sdirrupu» (“precipizio) come a uno «scantu mutu» (“spavento muto”), percepisce distintamente la sua condizione non allineata ed estranea rispetto al mondo circostante: «e stu tempu mi lu ’ncignu / è na bunaca fora misura» (“e questo tempo lo indosso per la prima volta / è una casacca fuori misura”; Pruvulazzu). È il tempo, quindi, il vero protagonista del libro; o meglio, il suo trascorrere inesorabile e ben visibile nei segni urbani e nelle geografie del quartiere – «c’è genti nova di ccà finu all’Ognina» (“c’è gente nuova da qui fino a Ognina”; Picaniddoti) – e che si volge alle leggi naturali ed edilizie della contemporaneità: «e ’n autru pezzu di quarteri / nta na nuvula giarna si nni va» (“e un altro pezzo di quartiere / in una nuvola gialla se ne va”; Casi e casuzzi).

Alla luce di questa dialettica passato-presente, la seconda sezione, Bar Cori Rossazzurru, potrebbe essere letta con il filtro di una nostalgia assimilabile, pur con le dovute cautele, a quella di una «Spoon River ellittica e minimale», come suggerisce attentamente Giovanni Tesio nella nota introduttiva. I personaggi che vi compaiono infatti, indicati con il nome di battesimo e la qualifica professionale o con un attributo peculiare (Don Melu parrinu, Don Saru varveri, Lu dutturi russu…), condividono con quelli celeberrimi creati da E. L. Masters lo stesso ‘sentimento del tempo’, sebbene da una prospettiva che non è quella ultima e assoluta della morte. Ma, a differenza del modello americano, c’è qui una nostalgia dei vivi per i vivi, anzi per le generazioni presenti e future, come ne La sezioni, in cui una disillusa voce poetante non riconosce più i valori e l’identità dei giorni di gloria del partito comunista: «e restu sbauttutu a sentiri / di li cumpagni di ura / chiddu can a ddi tempi non si vuleva / […] / paremu ddi ziti ca non si volunu / cchiù beni» (“e rimango sbalordito ad ascoltare / dai compagni di adesso / tutto quello che allora non volevamo / […] / sembriamo quei fidanzati che non si vogliono / più bene”).

Scantu (“spavento”) è invece la terza sezione che riprende e rimodula come in un’opera sinfonica il leit-motiv del pruvulazzu. È, questo, sicuramente il momento più intenso del libro, dove l’io lirico si muove in uno spazio interstiziale tra il sonno e la veglia – «menzu arrusbigghiatu, menzu vivu / menzu chinu e menzu leggiu» (“mezzo sveglio, mezzo vivo / mezzo pieno e mezzo vuoto”; Talivoti) –, in un limbo che annulla il confine tra la vita e la morte e che lo fa sentire Strammatu (“in confusione”): «’n menzu la strata / signuri ppi menzura / di tutti sti vivi / e di tutti sti morti» (“al centro della strada / signore per mezzora / di tutti questi vivi / e di tutti questi morti”). Nonostante una tale situazione, o forse, in verità, a causa di essa, è soprattutto in questa tranche della raccolta che Pennisi si concede aspre invettive contro il proprio paese e contro la deriva della cultura occidentale – «l’Italia, l’occidenti / fu ’n sonnu, na jastima / un libbru supra lu bancu / di ’n robbivecchi» (“l’Italia, l’occidente / è stato un sogno, una bestemmia / un libro sul banco / di un rigattiere”; Li sempri) – che si riversano anche nei frangenti più intimi in cui prevale invece un tono più assorto e interrogativo: «Sciancata Italia, ntra sti strati / chini di scaffi e pruvulazzu / cchi fini ficiru deci anni / di jastimi? Stu silenziu / vulissi diri che semu tutti morti?» (“Zoppa Italia, in queste strade / piene di buche e di polvere / che fine hanno fatto dieci anni / di sacrifici? Questo silenzio / vuol dire che siamo tutti morti?”; Cu’ su’?).

Invettive e interrogative che traghettano il lettore all’ultimo atto, Nisciuta (“uscita”), in cui emergono, in chiave meta poetica come accennato in precedenza, anche le sfumature più ludiche della poesia dialettale di Pennisi, come nella già ricordata Parola. Qui, la voce poetante sembra ‘giocare’ con lo statuto della poesia e con la funzione, sociale e non, del poeta smarrito nel Labirintu di un mondo che sfugge a ogni pretesa di possesso del reale. È, dunque, in ultima istanza, un modo per ribadire che «ntra sta partenza / e ’n’autra partenza / cc’è cchiù di ’n mari ammenzu» (“tra questa partenza / e un’altra partenza / c’è più di un mare in mezzo”; Nisciuta). Ed è in questo, leopardiano mare che Pennisi àncora la sua parola poetica, essenziale eppure vibrante di un’umanità inossidabile. 

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