Edgar Degas, Paesaggio

Un compito difficile, a me ascritto è quello di esprimere un parere sulla poesia. Ne ho riletto in questi giorni, tra le righe, il senso comune, senza pretese, molleggiando tra la folla qualche verso di raccatto, giusto per allenare il cronometro, nuovamente, alle tonalità del verso. Pigramente mi ritrovo sempre a dialogare con la musa, in un verso o in un altro, da che lei mi risponde a tratti, sempre in punta di piedi, quasi amandomi. A quel punto (potevano essere le undici e mezza) mi sono detto: “adesso scriviamo l’articolo”.

Poesia. La parola né è già un suono alto, in cui mi rifugio, quando posso. Si dice che nasca dalle profondità e che poi sarà lei a trovarti, cercandoti tra i rovi, le onde, le fronde, nei cessi pubblici o in qualche discarica inondata di stormi. Oppure tra le maschere che indossi, le scie della notte, o i silenzi di una città addormentata.

Non possiamo parlare di suggestione poiché la poesia filtra anche il pregiudizio, penetra in fondo come un pescatore di frodo, arriva a scavare il mare nudo della percezione, è luce. In tutto questo naufragare vi è certamente una componente da non scartare a priori, cioè quella di essere un buon lettore, che non deve assolutamente mancare a chi già è stato visitato, in nuce, dalla poesia. Per poter scrivere, quindi, è molto importante saper leggere, poiché la poesia per poter essere espressa, necessita di un buon linguaggio, di una costruzione ben strutturata, che poi abilmente potrebbe trasformarsi, in un lavoro di pregiabile cesellatura. Quindi vediamo come la poesia non si limita soltanto ad esistere, ma si allunga e si getta tra le mani di chi la perfezionerà e ne farà un gioiello linguistico.

La metabolizzazione passa attraverso tre stadi fondamentali: l’immagine, il buio, e il riciclo dell’immagine in linguaggio. Questa tempistica dell’assimilazione getta le basi fondamentali per la riuscita di un buon testo.

Tutto il processo passa anche attraverso una certa fisiologia, che io chiamo fisiologia indotta, ovvero quell’intromissione vibrazionale che attraversa un poeta e lo rende vittima del suo stesso travaglio. Spesso passa per il plesso solare, girando, vorticando come nel caso dei chakra e arrivando, in ultimo, all’altezza della gola, cercando la parola. Questo è, secondo me, l’atto della poesia: immaginifico, sensazionale, fisiologico. Le matrici possono essere delle più disparate, incuneate nella nostra condizione culturale, passano attraverso l’atto dell’alterità, confrontandosi con le paure, le incertezze, le gioie. Può capitare di imbatterci in una sequenza veloce, asmatica, in cui dobbiamo dibatterci per poterne cavare un verso decente, oppure spesso per me, è un corteo di immagini traslucide, che affondano e poi risalgono in superficie, come un’anatra che tuffandosi cerca il cibo, sul fondo del lago.

Scriveva Italo Calvino che la poesia è l’arte di mettere il mare in un bicchiere. Questo percorrersi continuamente, su strade, piroette e scalate, rende il poeta più permeabile nel tempo, e cosciente di una realtà che gli appartiene da sempre, sin dalla nascita, mette il suo corpo e la sua vita alla mercè di uno slancio, un guizzo. Il poeta non è mai padrone della sua poesia, ma la riconosce e da essa ne è riconosciuto. Nella contemporaneità e non, la poesia, ha sempre avuto la straordinaria capacità di cercare il giusto metro, la sua forza indubbiamente ha collimato sempre e  comunque con le culture e i linguaggi correnti, il corpo vivo si è sempre reso immortale, in qualsiasi epoca. Questa potenza e forza sono date dal fatto che la poesia trascende tutte le contraddizioni, corrobora i tessuti della società e, in molti casi, ne corregge i movimenti, allineandosi su quelle note alte che ne cambiano spesso l’assetto. Tuttavia oggi la mia sensibilità di poeta mi porta su derive pericolose, corro il rischio di essere spettatore di un rifiuto. Sento che là dove la poesia dovrebbe superare l’umano e farlo suo, oggi invece soffre di una chiusura, non è accolta come dovrebbe. Molti si dicono poeti, tentano l’impresa cercandone l’amicizia, il sodalizio perfetto, ma per contro essi sono guidati da una bramosia della confezione, legata a quella vanità immediata che è dettata dall’eccessiva velocità tecnologica, dalla frenesia isterica di un tempo in cancrena. Per scrivere in versi bisogna essere umili, questa è la verità, il passaporto che ci consente di riconoscerci e di essere riconosciuti. Bisogna andare lenti, passo dopo passo, senza pretese. Ma come ama sempre dire un amico poeta e maestro, Roberto Deidier: “la poesia, per chi l’ascolta o la legge, deve far sobbalzare dalla sedia!”. 

 

Una selezione di poesie edite e inedite

 

Piango le enormità a me estranee
quelle giunture del giorno
che frastagliano nel millesimo
ogni costola dei nostri occhi.
Piango e non lo sento, ormai
è come dipingere su una tela invisibile
che la mano s’affonda senza risveglio.

*

Raccolgo i miei oggetti
ne escono vecchie storie
i fili tesi del tempo
rammollirsi per divinità
oratoria dei crepuscoli
che vedrò con te
assopiti in un angolo
dove chiederemo asilo.

*

Un cane lento dorme,
la coda nel fango
il muso sulle sue orme.

*

Su un ago da balia
si è posato il cielo
per scalfire l’aria
farne cemento duro
grezzo mangime di merlo
in ultime rime
il canto presocratico
di un tardo giovamento.
Il mondo è salvo
prenotato a gran spettacolo,
bisognerebbe entrarci
e cantarlo…

*

Un minuto al sole
ecodistanti e sostenibili,
dall’infanzia al rumore
pesai le mie carte
il mio slancio
e adesso che sogno ancora
mi libera questo mare
di indecifrate sembianze.
Due minuti all’ombra
di una tettoia provvisoria
pestando il seme che andrà
giù, nel ventre della cura
a guardarti, a toccarti
respirando la terra
esplodendo di germogli.
E la pioggia…

*

Infanticidi

L’antica madre che chiama il figlio
a se, lo chiama uccidendolo!
Infila il coltello nella sua gola
Medea dal collo lucido
si spalma con le mani il volto:
stelle ardenti dell’ira!
E tutti i figli morti
entro questo secolo che rabbuia
il cielo coi denti digrignati,
soli e risorti
ammucchiati nelle stanze del futuro
li sentiamo parlare, bisbigliano il dolore
come quello del maiale
che sente la morte col muso umido.

*

Se ne vanno lentamente
a disegnare la scia di un tempo
dove coltelli li hanno già trafitti
in luoghi che puzzano di ovvio.
Sono i cammelli della rovina,
la carovana col capo pendulo
e s’infilano ridendo
più morti di prima.

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