Giovedì 19 marzo nei locali del Camplus d’Aragona (via Ventimiglia 184) si è svolto il terzo incontro del laboratorio di scrittura poetica ‘Le parole della poesia’ organizzato dal Centro di Poesia Contemporanea di Catania. L’incontro è stato animato dal generoso e appassionante intervento di Maria Attanasio che ha delineato la sua esperienza poetica a partire dal lemma magma, rappresentativo, secondo quanto dichiarato dalla stessa poetessa, della propria opera in versi.
Il lemma che lei ha scelto per introdurre il terzo incontro del laboratorio “Le parole della poesia” è magma. Che rapporto intercorre nello specifico tra questa parola e la sua esperienza poetica?
Cos’è il magma? Una materia vischiosa, inclusiva di tutti gli elementi – terra fuoco aria acqua – che risale dal profondo e trabocca. E traboccando procede per rarefazione e condensazione, metamorfosi e differenziazione dei suoi elementi, diventando lava, pietra, architettura, sostegno, decoro, colore di strade, muri, e palazzi, ma anche terra fertile e fondale marino, che alimentano piante, fiori, frutti, pesci. Che poi, magari, a distanza di tempo, un’altra magmatica colata risalendo dal profondo cancellerà. La parola magma mi sembra perciò la metafora privilegiata del processo che presiede all’atto poetico: quell’angolazione creativa – assolutamente singolare e irrepetibile per ogni poeta – inclusiva di storia e vissuto da cui nascono e in cui si inscrivono l’emozione e la parola della poesia.
In effetti, facendo riferimento a Eros e Mente (1996) e Amnesia del movimento delle nuvole (2003), ci sono altri lemmi che ricorrono in maniera quasi ossessiva, come buio, notte, stanza, sesso, mente. Tutte parole che sembrerebbero afferenti a un campo semantico-cromatico del nero. In un contesto del genere come si colloca il magma?
Non solo buio e notte, ma anche luce e giorno, tornano con una straordinaria frequenza in tutta le mie raccolte di poesia – da Interni all’ultima Blu della cancellazione, ancora inedita. Ma quando mi è stata chiesta una parola che tutta potesse rappresentarla, non ho avuto dubbi: magma. Un termine, però, presente appena quattro volte in tutta la mia scrittura poetica! Non si tratta infatti di frequenza terminologica, ma di ciò che, nella mia poesia, è costitutivo e rappresentativo sia della dimensione espressiva, che è sempre decifrazione e processo – tematico e linguistico – dal caos alla definizione; sia dei poli simbolici e concettuali, che la sostanziano: l’auroralità –pulsante di ogni possibilità – dell’origine, e l’altra – la temporalità senza nome e memoria – oltre la mia finita esistenza. Da qui il procedere ossimorico, inclusivo, di luce-buio, corpo-mente, voce-silenzio, interno-esterno, non isolabili nella loro singolarità, ma interferenti senza soluzione di continuità del mio sentire e del mio dire.
Certi ‘umori’ e certi ‘accenti’ della sua poesia sembrano fare riferimento alla grande lezione di Bartolo Cattafi, almeno per quello che riguarda una densità concettuale abbastanza esplicita nella scrittura. È così?
Anche metafora e concetto per me sono inscindibili. La poesia non è la restituzione di un’effimera emozione, di un crociano sentire senza concetto. No. Ma il pensiero, il pensare – inquieta ricerca, tensione intellettuale – sono per me il necessario fondale, dove si inscrivono, e trovano spessore e durata, emozione, metafora, linguaggio. E così è sempre stato nella storia della poesia – in modo esplicito o implicito – da Dante a Rilke a Eliot, da Leopardi, a Montale, a Cattafi.
Quali sono stati i suoi maestri in poesia?
Tutta la poesia già stata, nelle sua plurale espressività, è mia maestra: G. Trakl, A. Rosselli, A. Zanzotto, E. Pagliarani, A. Ginsberg, G. Benn… e potrei continuare così… infinitamente a enumerare.
«Cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare e dargli spazio», scriveva Italo Calvino. Ci sono autori delle nuove generazioni secondo lei meritevoli di uno «spazio» futuro?
Cosa intendere per nuove generazioni? I ventenni? I quarantenni? I sessantenni? O tutta la poesia che si fa in questo tempo? In quest’ultimo senso, alcuni nomi in ordine generazionale: Andrea Inglese, Antonella Anedda, Milo De Angelis, e un ottantenne – Giancarlo Majorino –, che non si accontentano, che, nonostante l’universale riconoscimento, non dismettono, ma instancabilmente continuano a cercare la parola della poesia… Riguardo alle ultimissime generazioni, trovo spesso – in ciò che vado leggendo in giro: in internet o in riviste – una sorta di dominante acquiescenza espressiva. Avverto però anche un diffuso bisogno di poesia che, soprattutto in aree di marginalità geografica, come la Sicilia ad esempio, tende a farsi linguaggio non omologato, singolarità testuale in divenire. Come i linguaggi poetici diversissimi – ma ancora in divenire, ripeto – di quattro giovani dell’area catanese: Antonio Lanza, Vincenzo Galvagno, Emiliano Zappalà, Pietro Russo [riferimento tanto lusinghiero quanto spiazzante per l’intervistatore]. E altri certamente ce ne saranno, che io non conosco, perché purtroppo, in Sicilia, non trovano facilmente né possibilità di verifica né visibilità editoriale.
C’è una sezione di Amnesia, precisamente Il dio dei giorni uguali e dell’indifferenza, che si potrebbe definire una sorta di j’accuse contro le dinamiche della globalizzazione in ogni suo aspetto. Cosa può la poesia e in quali termini può intervenire in questo scenario?
La poesia, come tutta la scrittura, non può cambiare il mondo. Un compito, che spetta alla società e alla politica. Il suo compito è di rappresentare la coscienza critica di esso. Coniugando, in modo intransigente, esperienza di verità e parola di libertà.