parola d’autore
Sono sempre stato un essere suggestionabile. Sin dall’adolescenza, la potenza dell’immagine, prima ancora che della parola, ha influenzato la mia capacità immaginativa.
Sono nato alla fine degli anni Settanta. Una famiglia piccolo borghese, madre maestra, padre ferroviere. Di indole sognatrice e schiva, ho iniziato a scrivere – come molti altri, credo – dopo aver visto al cinema “L’attimo fuggente”. Non che la mia vita attendesse quel preciso momento per trasformarsi in parola verticale, ma ricordo, con disarmante nitidezza, i primi tentativi di scrittura.
E quella poesia, acerba, sofferta, gettata appallottolata in mezzo alla neve. Ricordo il bianco, la notte gelida, mio fratello che tentava di strapparmi dalle mani quel foglio a quadretti, il suo riuscirci e la sua espressione perplessa, disorientata, dopo averla letta. Mi sarebbe capitato molte altre volte che mi strappassero di mano le mie poesie: amici, professori al liceo, compagni di banco. Scrivevo sempre nei momenti meno opportuni.
Da ragazzo ho praticato molto sport, con impegno, e con ottimi risultati. La mia vita sociale è stata sempre positiva. Sono stato e resto un musicista. E allora perché la poesia? La voragine che si apre quando non si conosce ciò di cui si scrive è un abisso che ha dei colori ben precisi. Io li chiamavo “i miei incavi blu e latte”.
Il concetto di tempo, durante l’adolescenza, è quanto più di vicino all’espressionismo, ho sempre creduto. Non ho mai saputo difendermi dalle ore, specie quelle notturne. Ho iniziato a fumare presto, all’epoca bastavano le sigarette, le droghe non ci interessavano. Ed era quella la mia seconda vita. Tessuta di notte. Quando la forza del mio corpo aveva già conquistato il suo piccolo mondo e gli amici e gli amori erano già a letto. C’erano molte cose da raccontare, a me stesso innanzitutto. Cose che mi hanno spaventato sin da subito, la poesia è una materia oscura, viva di una vita che non ci assomiglia.
Sono stato anche un pessimo alunno di liceo classico. Arrogante e guascone, eppure efficace, in una classe meravigliosamente indisciplinata e suggestiva. La poesia non l’ho incontrata a scuola. Ce l’ho portata io, in un giorno di maggio dell’ultimo anno. Avevo dato alla mia compianta professoressa d’italiano le mie prime poesie, pregandola di leggerle e di darmi un consiglio: continuare, o lasciar perdere, come facevano intendere i miei. Nell’aula delle cartine geografiche, la professoressa mi ha consegnato alla scrittura, mi ha ordinato di continuare e di insistere. I miei punti di riferimento letterari erano quelli di tutti, in fondo. Avevo letto Leopardi, e quella sua scrittura così potente non poteva lasciarmi indifferente. Dei classici non ricordavo molto, all’epoca latino e greco li studiavo poco e male. Il libro di filosofia non l’ho mai aperto.
In tutti questi anni di pubblicazioni ed incontri con altri poeti, mi sono sempre sentito un pesce fuor d’acqua, perché chi più, chi meno, un po’ tutti erano partiti da basi accademiche. Io avevo un sangue corrosivo, una capacità simpatetica incontrollabile, filtravo tutto, e lo ritrasformavo in pensiero poetico. Nessuna suggestione letteraria ed intellettuale. Ero un autodidatta. Ho pubblicato il mio primo libro a venticinque anni. Senza sapere un accidenti della poesia contemporanea. Paradosso della vita, mi ero iscritto a lettere classiche, ad indirizzo archeologico. Che poi era il motivo per il quale a quattordici anni avevo scelto di iscrivermi al classico. Figuriamoci se in quell’ambiente c’era spazio per la poesia contemporanea. A parlarmi di Sereni è stato per la prima volta un amico, poeta marchigiano, al Premio Minturnae. Quella sera, a cena, sedevo al tavolo con Mario Luzi e Vito Riviello. Ecco perché la poesia mi ha sempre sorpreso. Per arrivare al mio secondo libro sono dovuto uscire dalla mia vita di paese, di gesti ripetuti e sicuri. Ho dovuto provare lo strazio dell’amore, lo smarrimento per un lavoro all’estero, piegarmi e ricostruirmi e parlarmi con lingue nuove. “La neve nel bicchiere” riporta, nell’introduzione, questa frase “ma un io quando non si autocelebra più diventa un noi”. Parlando del mio libro, hanno scomodato Fortini ed Ungaretti, io li avevo letti di fretta, la vita bussava più forte. La poesia è civile, lo credo da sempre, non ho mai amato l’elegia fine a se stessa, o peggio ancora, l’intellettualismo, la poesia che ha il tanfo dei libri letti. C’è un mondo così largo, che mi spaventano i binari già segnati, gli epigoni, le conventicole, le prove d’ammissione per entrare nei cenacoli. Vivo nelle Marche, le adoro, ho tanti amici poeti a cui voglio bene perché sono diversi da me. Capita che ci incontriamo, si ride, ci si ascolta, si fanno dei progetti, poi ognuno torna a casa ed affronta la quotidianità, con caparbietà e coraggio. La poesia è coraggio. Sono riuscito persino a parlare d’amore, nell’ultima raccolta, a scrivere della donna che capita una volta nella vita, e l’ho fatto con un abisso nello sterno al posto del cuore. Eppure sono convinto ancora di più che l’atto della scrittura sia principalmente un gesto civile. E che tale sia l’unica via perché la poesia torni ad essere letta. Ora sono diventato bravo: faccio i compiti, leggo, studio, mi documento sulla letteratura, partecipo, per quanto mi sia possibile, al dibattito culturale, faccio spettacoli e letture pubbliche. Oggi sono un professore di lettere, il Lucignolo che si trasforma bambino bravo, ma che conserva sempre quella malizia e quella guasconeria che non cessano di corrodere le vene. Ecco perché, sebbene cerchi con tenacia una disciplina dello scrivere, resto ancora affascinato dal mistero che, improvviso, ci fa assomigliare a qualcosa che non siamo noi. Ho avuto ed ho la fortuna di condividere questa mia passione con artisti figurativi e musicisti, la parola non va lasciata sola, non riesco a lasciarla sola. Nutrire la parola con la parola è cannibalismo. La poesia è coraggio. E condivisione.