Essere folli o essere geniali
garantisce di essere fraintesi

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rubrica il pensiero poetico

La ragione non è ragionevole, non giunge al suo limite fatto di fantasticheria per mostrare in modo inequivocabile l’assurdo riflesso di ciò che esiste, e cioè ciò che non esiste. Non si può confutare la bontà neanche attraverso il tempo e la scrittura. Non ci sono parole per esprimere l’incapacità del pensiero di chiamarsi in un altro modo, il mondo è il mondo, dio ha sempre il suo nome, e siamo ancora tutti alla ricerca dell’anima guidati dall’idea della sua bellezza. Ci sono tentazioni a cui è impossibile resistere. La follia è l’impossibilità soggettiva di allontanarsi dal ricordo delle esperienze personali per vivere normalmente il presente come un tempo altro, in cui le primitive emozioni non contaminino oltre misura le scelte da prendere in una realtà fatta di natura e cultura. È come se ti inchiodassero le palpebre sugli occhi che vogliono restare aperti. Col terrore di sfidare qualche forza superiore cercando invano di ribellarsi al proprio stato. La forza superiore è proprio la malattia, la sbornia analcolica che non disseta. Se la follia è verità, lo è anche il suo rappresentare la liberazione dal dogma della produttività, perché la sottrazione violenta di un dono da parte del nulla per lo più annienta la genialità. La follia è più nulla che essere, e il genio cerca solo di non essere un nulla. Di qui il comune tormento di artista e matto, l’uguale ambizione, vissuta più o meno in profondità, a considerare sinonimi lo smarrirsi e l’oltrepassarsi: perché non si può essere due persone allo stesso tempo? Questo è ciò che domanda la fame di irrealtà. Perché nell’antichità il folle era la voce del divino e poi è diventato l’espressione del demoniaco? Perché il folle, come il genio, viene frainteso? Perché, forse, la comprensione richiede forme di empatia negate a chi circonda queste figure? Negate da cosa? Dal caso? Oppure il libero arbitrio che tutti possediamo viene spacciato per un motore a scoppio, come se si spegnesse e si accendesse, in modo da mettere queste personalità straordinarie nella condizione di pensare di essere causa dei propri mali e delle proprie sventure? Tutti coloro che hanno a che fare con persone che soffrono di disturbi mentali, per adattarsi bene o male alle circostanze, si atteggiano a medici o a psicologi, cercando di individuare i motivi che spingono il malato a comportarsi in modo bizzarro, cercando una sorta di terapia alternativa che sostituisca le responsabilità ambientali in fatto di mancanza di comprensione, attenzione, solidarietà, amore. È questo il punto di non ritorno per la persona affetta da malattia, il punto in cui inizia il blocco emotivo nei confronti del mondo esterno, da qui in poi il malato inizia a essere vittima della sua interiorità e della realtà, perché non distingue più l’una dall’altra, e la distorsione della percezione diventa un nuovo modo di percepire, cosicché il malato sente di poter sentire ancora, di poter provare ancora sentimenti col permesso di una ragione che invece è confusa con la ragionevolezza. Quando un genio si ammala, la sua sofferenza è acuita dal ricordo di ciò che egli era e che non potrà mai più essere. Quando un genio si ammala, diventa il malato per eccellenza. Ma d’altra parte cos’è la salute mentale? Ci si potrebbe domandare anche questo. Si potrebbe prendere spunto da un caso clinico per criticare anche la società che contribuisce a produrre, discolpandosi col permesso della psichiatria e dello Stato, persone depersonalizzate. È un furto senza reato ai danni della poesia, della poeticità, del sublime, del perfetto.

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