[Tratesto]
Ad altezze rarefatte i movimenti della storia si cristallizzano e la lingua umana assume lo splendore di una lastra di ghiaccio. Gries (Aragno, 2019) di Davide Brullo, che nel gelo riconosce il principio della propria esperienza sub specie poetica («la mia biografia è riassunta in una nevicata», 14), è un viaggio in questo territorio artico, all’apparenza inospitale e respingente, ma per altri versi dotato di un fascino monocromatico (il bianco della neve), nonché di un suo specifico bios (la temporanea stasi della materia e del tempo). Sperando di rifuggire dalla banalità della constatazione, ci sembra quindi necessario specificare che tale viaggio non è il surrogato sintetizzabile nella trinità turistica partenza-meta-ritorno, cioè scandito dalle “coincidenze, le prenotazioni, / le trappole, gli scorni di chi crede / che la realtà sia quella che si vede”, per dirla con Montale, bensì un’urgenza per cui chi esce dai confini delle proprie abitudini lo fa per un intento esplorativo.
Gries è allora l’esperienza di questa esplorazione e, al tempo stesso, il tentativo di mappatura di una realtà ignota. Seguendo l’io poetante oltre l’hic sunt leones di una cartografia incapace di restituire le dimensioni reali («tra carne e carta ogni cosa è troppo / piccola», 45), ci addentriamo nei balzi e negli scarti di senso di una scrittura i cui punti di riferimento non ci vengono dati aprioristicamente. Il lettore è dunque chiamato non solo a tracciare linee e confini, a lasciare impronte sul terreno per ricordarsi dell’avvenuto passaggio, a stabilire connessioni e analogie in vista della realizzazione di una mappa ermeneutica; egli deve anche essere in grado di antropizzare e urbanizzare questa landa dove i nomi sono sepolti e si specchiano nelle cose in una unità primigenia. Riportandoli alla luce, il poeta rompe questa originaria armonia e quindi oltrepassa il confine: «fu per trovare i nomi che superai il Gries» (5).
È chiaro, a questo punto, che Gries è una realtà che si pone nel segno di una fine da cui però scaturisce la genesi della poesia. Benché la toponomastica la rimandi a un passo alpino nei pressi di Verbania (legato per ragioni biografiche all’autore) e l’etimologia a un’antica voce gotica per indicare la ‘pietra’, Brullo, che «ha la forza linguistica e immaginifica di un fondatore di civiltà» (come scrive Marco Merlin nella nota finale), fa di essa il fondamento del suo progetto mitopoietico. Gries è dunque un luogo che rigetta la vita in quanto il suo principio è la morte: «mio padre era sepolto chilometri a valle / […] / sul Gries non c’è vita […] / ma un pullulare di lettere con cui sigillare le labbra ai figli» (5). Qui non valgono le leggi del movimento perché «la Storia è la verbosa calunnia del coyote» (13) e pertanto «è sottratta» (55) all’alternanza vitale delle generazioni. In altre parole, nei confini del Gries è impossibile «ricombinare la paternità» (5) nell’ottica di un principio di successione regale; al padre morto, infatti, non segue un figlio che ne porta avanti l’eredità ma uno che invece, più tortuosamente, cerca di «manipolare la fratellanza / perché sia più duratura la stabilità del regno» (6).
Se la nostra chiave di lettura regge, si può ravvisare in questo blocco familiare e storico, cioè in questo mancato passaggio di consegne da padre a figlio, la ragione per cui «nel gelo è l’annuncio» (7) che ricopre ogni cosa, la Legge scritta del padre che è nome e unità di misura del tempo: «un nome fa – per pacificare i morti – ritrovai l’inverno / che muovendo le tende ha raggelato la nostra biografia» (9). A questo “alfabeto della neve” il soggetto filiale non può sottrarsi per volere divino («un dio agisce nel ghiaccio / e considera i nostri abbracci la genesi del gelo», 10); tuttavia, costretto dal dio-padre a varcare una soglia infera («con stilettate di gioia dagli altri mondi / mio padre mi costringe a inseguirlo»), egli riesce a trovare, nella «successione dei boschi / profondi come un vocabolario» (7), il respiro epico e sapienziale di una parola che attraversa come una crepa la superficie del ghiaccio. Eleggendo a dimora «una lingua impervia», il figlio prende atto della propria identità di poeta («“ma io sono l’uomo / senza futuro” ti dissi», 17) e impara così a usare «la lingua / come un metronomo» (18).
La conquista di questa parola permette una corrispondenza epistolare (Lettera dall’inverno, Lettera dal ritorno, Lettera dai ritiri, Lettera a Ushuaia) di cui ci arrivano lacerti, locuzioni lapidarie, frammenti di un discorso sotterrato dal ghiaccio riportati da verba dicendi al passato («disse», «ti dissi», «hai detto», «ti scrissi», ecc.) che ora si intrecciano al logos del soggetto scrivente formando un corpo monolitico dove gli interlocutori si confondono. Ma come nel celebre racconto di Kafka il messaggio è destinato a perdersi, a non giungere mai, perché gli attori coinvolti nello scambio comunicativo appartengono a un diverso piano temporale e di realtà: «tu cerchi il rifugio – io la fuga» (11); «ma parli a un annegato / – io mordo la luce dell’acciaio – do paternità all’incostanza» (12). Di fronte a passaggi a come questi ci chiediamo “Chi parla?”, ma soprattutto, lacanianamente, “Da dove parla” chi prende la parola, chi ha ordito infine questa strategia ‘letterale’? Probabilmente da un non-luogo, da una soglia come può esserlo il Gries. Che l’oscurità di questa comunicazione rimandi all’impossibilità del dialogo con i morti è quindi più di un sospetto.
Ciò dovrebbe gettare, o almeno ci sembra, una luce sull’ossessione poetica di Brullo che esaspera e tenta di condurre la lingua umana fino alle colonne d’Ercole del Logos (con la segreta speranza/hybris di oltrepassarle…). In questa direzione, la ripresa del mito biblico-americano di Moby Dick – durante il raro sogno di estreme latitudini meridionali della Lettera a Ushuaia – è un chiaro segnale dei termini e della posta in gioco di questa quête:
ho detto
«se scrivo mentre dormi intaglio
il giorno» e la luce – la fuggiasca – rassegna
i continenti a un desiderio –
«ritrarre la gioia sulla chiglia di questo bue d’acciaio»
disse da braccia in continuità con l’iceberg – certo
che una vita si esaurisca nel suono e sia vana la
fantasticheria dei ramponieri di trovare il sole
nel crisma artico –
quando si ama il passato è vetro – ricordi?
una lettera serve almeno a tradire le gambe
poiché la lingua è una cospirazione parliamo
(18-9).
Non a caso, nel regno del Gries, ai poeti la cui parola non è segnata dalle radici della morte viene riservata una fine atroce: «fummo felici di assistere al tormento dei poeti / – foderarono nel ferro la loro lingua e sganciarono / gli occhi gettandoli nell’iride della pianura / “non ricordano il manoscritto dei morti / né il confine» (13); «“per garantire il bene basta estinguere i poeti – ‘ma i poeti sono morti perché la loro parola non ha intaccato la morte’» (50). Il destino del poeta-figlio di Gries è quindi segnato all’origine: «ma io ti ho visto / ed eri una lettera bianca / sulle acque – figlio biblico» (36); «i muri assorbono il mio nome biblico / come se fosse un patto di vento // stagionato per la complessa paura della / migrazione» (38). Solo riscrivendo il principio, come in una nuova Genesi dove il Dio-Parola aleggia sulle acque in forma di vento, il soggetto poetante può riconciliarsi con esso e sentire finalmente «le mani di mio padre in ritardo di trent’anni» (62-3), ovvero la sua natura di figlio.
dovrei – ma la cartilagine della gioia…
bilanciare la paternità sulle lapidi
perché la rivelazione è questa
i morti non amano – e noi li amiamo
per consolidare la vita e dare
un padre alle nostre scelte
«non ha merito la nascita
o percorre un perdono più profondo?»
con un coltello curvo come un orecchio
estraeva l’ugola dei morti dalle betulle
per rivendere generici ringraziamenti
(42)