Jacques Leonard Blanquer Portrait of Charles Leconte De Lisle

Il nome di Leconte de Lisle (1818-94) dice poco oggi in Italia, almeno a chi non sia esperto o appassionato di letteratura francese, eppure in Francia le sue opere brillano nella costellazione della Pléiade di Gallimard, onore riservato solo ai grandi. Infatti, oltre ad essere un illustre poeta e traduttore (realizzò apprezzate versioni di classici greci e latini, da Omero a Orazio), e membro dell’Académie française, fu il caposcuola di quella corrente detta Parnassiana, che formò due dei più grandi geni della poesia francese, Paul Verlaine e Stéphane Mallarmé. Insieme ad altri grandi nomi, come Théophile Gautier e Catulle Mendès, de Lisle diede vita a quel cenacolo di letterati, a quella fucina di sperimentazione poetica che avrebbe visto la sua realizzazione nella pubblicazione del Parnasse contemporain, edito nel 1866 dal libraio Alphonse Lemerre (a cui sarebbero seguiti altri due volumi, nel 1871 e ‘76). L’estetica di questa nuova scuola è presto spiegata dal critico napoletano Vittorio Pica, grazie al quale l’opera dei cosiddetti decadenti e simbolisti francesi venne diffusa in Italia alla fine dell’Ottocento: «In opposizione al lirismo ispirato, tempestoso e scompigliato di Musset e Lamartine, ai quali poco stava a cuore la ricchezza della rima e la sonora armonia dei ritmi, i Parnassiani […] volevano bandita la passione dai canti dei poeti ed aspiravano ad un ideale di bellezza plastica, ad una fredda e splendida rigidità marmorea, ad un superbo ed impassibile oggettivismo». Ed ecco qui un perfetto esempio del taglio incisivo, della precisione classica, della forgia sottile e scultorea dello stile di Leconte de Lisle, che fu nominato, a ragione, “Principe dei poeti” (suoi successori sarebbero stati proprio Verlaine e Mallarmé), per la profonda innovazione portata nella Poesia francese. I versi che pubblico di seguente sono tratti dalla raccolta Poemi tragici (1886). Nella  foto a destra Jacques Leonard Blanquer, ritratto di Charles Leconte De Lisle

 

A un Poeta morto

Tu, i cui occhi erravano, alterati di luce,
dal colore divino al contorno immortale
e dalla carne viva al fulgore del cielo,
riposa nella notte che sigilla le palpebre.

Vedi, intendi, senti? Vento, fumo e polvere.
Amare? Solo fiele nella coppa dorata.
Come un Dio annoiato che diserta l’altare,
rientra e disperditi nell’immensa materia.

Sulla tua muta tomba, sulle ossa logorate,
che un altro versi o no le lacrime consuete,
che il tuo secolo sciocco ti scordi o ti onori;

invidio, nel profondo dell’oscuro sepolcro,
il tuo fuggir la vita ed il più non sapere
l’infamia di chi pensa e il male d’esser uomo!

À un Poète mort

Toi dont les yeux erraient, altérés de lumière,
De la couleur divine au contour immortel
Et de la chair vivante à la splendeur du ciel,
Dors en paix dans la nuit qui scelle ta paupière.

Voir, entendre, sentir? Vent, fumée et poussière.
Aimer? La coupe d’or ne contient que du fiel.
Comme un Dieu plein d’ennui qui déserte l’autel,
Rentre et disperse-toi dans l’immense matière.

Sur ton muet sépulcre et tes os consumés
Qu’un autre verse ou non les pleurs accoutumés,
Que ton siècle banal t’oublie ou te renomme;

Moi, je t’envie, au fond du tombeau calme et noir,
D’être affranchi de vivre et de ne plus savoir
La honte de penser et l’horreur d’être un homme!

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