L’arte dissoluta della disciplina. Le poesie postume di Charles Bukowski

Charles Bukowski, rielaborazione grafica di Nino Federico su l'EstroVerso ZIZZA
Charles Bukowski, rielaborazione grafica di Nino Federico

l’étranger

Basterebbe solo dire il nome di Bukowski per rievocare l’immaginario di una vita on the road per usare le parole di Kerouac. Charles Bukowski è uno scrittore la cui notorietà è legata a romanzi come Post Office, Factotum, Donne, Panino al prosciutto, che hanno per protagonista il suo altero ego Henri Chinaski, e infine al postumo Pulp, romanzo parodia di genere poliziesco incentrato sulla figura del detective Nicky Belane. Bisogna tuttavia ricordare che la fama del poeta precede quella del romanziere. Quando di fatti pubblicò Post Office nel 1971, Bukowski era già conosciuto da più di dieci anni nelle vesti di poeta (la raccolta Flower, Fist, and Bestial Wail è del 1960).

Presso di lui, ben sappiamo, biografia e scrittura s’intrecciano. Se da una parte restiamo affascinati da questa figura ribelle, dall’altra è bene non farsi prendere in trappola da suggestioni da taverna, esistenziali e maledette, espresse nei temi dell’alcool, delle donne, delle risse, insomma da tutto ciò che definisce un’icona del vagabondaggio fuori dagli schemi. Bukowski non era solo questo e andando a fondo scopriamo un poeta regolare e scrupoloso. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, la sua vita fu caratterizzata da un intenso rapporto con la scrittura, ragion per cui se tendiamo l’orecchio alle sue poesie sentiamo il ticchettio notturno della macchina da scrivere, mentre risuona Brahms nella stanza. La bibliografia dei suoi titoli è lunga, a conferma – scrive Enrico Franceschini nella nota al libro Quando eravamo giovani edito da Feltrinelli – che «sotto l’aspetto del barbone autodistruttivo, c’era dunque un artista, anche piuttosto disciplinato», che non scriveva a caso e anzi la semplicità del suo dettato «non va scambiata per superficialità o imprecisione».

Bukowski è garanzia di autenticità a prescindere dai dettagli autobiografici presenti nelle sue opere. Eppure siffatto autobiografismo, puro e privo di artifici, torna determinante per esprimere una realtà in poesia, ovvero la vita americana nell’espressione della grande e disumanizzante metropoli, descritta con un linguaggio popolare senza ambiguità e senza fraintendimenti, con una visione semplice, ridotta all’osso, tutt’altro che banale, aliena alla filosofia e alla sistematicità delle affermazioni. Al bando allora le metafore estese e complesse!

Quando eravamo giovani, con La canzone dei folli e Il grande, sempre pubblicate da Feltrinelli, rappresenta la corposa raccolta delle 175 poesie inedite riunite sotto il titolo Bone Palace Ballet affidate dal poeta al suo editore John Martin, fondatore della Black Sparrow, con la condizione che venissero pubblicate postume. La raccolta vide la luce nel 1997, pochi anni dopo la morte dell’enfant terrible della letteratura americana. In Quando eravamo giovani (la prima parte, consistente di 32 poesie delle 175) è il Bukowski della memoria a parlare. Formando una sorta di poema della gioventù, egli narra gli apprendistati e le esperienze – la passione letteraria, le letture, l’abitudine all’alcool, il sesso, gli spostamenti. Lo vediamo a scuola, in bicicletta, intollerante alle regole, ubriaco di notte, poi cacciato di casa dai genitori, e ancora in cerca di lavoro, al funerale di suo padre, a prendersi a pugni con un operaio. Ma la sua apparente prosaicità rivela una botola, un ingresso più profondo alla sostanza, al contenuto. Il messaggio dell’autore prende il diretto fino alla nostra mente, facendo attenzione agli attimi che lo producono perché «la verità | sta | nelle sfumature», e nelle sfumature ritroviamo un risvolto simbolico. Basta leggere Primo amore e Un posto a Filadelfia per rendersene conto, il simbolo è la parola poetica meditata e studiata a fondo, pura sintesi della verità nelle sue sfaccettature. Insomma poeta sui generis dallo stile sporco ma non troppo (in ambito narrativo viene spesso associato alla corrente del dirty realism, il realismo sporco in voga negli anni 70/80, ma possiamo dire con certezza che Bukowski poeta e romanziere non amava le etichette e soprattutto era refrattario alle correnti letterarie), il suo stile non conformista e a tratti spietato lascia un sapore crudo e sincero. È un “cattivo ragazzo”, però trova la parola giusta per narrare una qualsiasi esperienza, la prova, questa, che la poesia non è mai lontana dalla vita.

 

 

Due poesie tratte da Quando eravamo giovani,
traduzione di Enrico Franceschini

primo amore

un tempo
quando avevo 16 anni
c’era solo qualche scrittore
a darmi speranza
e conforto

a mio padre non piacevano
i libri e
a mia madre neppure
(perché non piacevano al babbo)
specie i libri che prendevo io
in biblioteca:
D.H. Lawrence
Dostoevskij
Turgenev
Gorkij
A. Huxley
Sinclair Lewis
e altri

avevo la mia camera da letto
ma alle 8 di sera
bisognava filare tutti a nanna:
“il mattino ha l’oro in bocca,”
diceva mio padre.

poi diceva
“LUCI SPENTE”.

allora mettevo la lampada
sotto le coperte
e continuavo a leggere
sotto la luce calda e nascosta:
Ibsen
Shakespeare
Čechov
Jeffers
Thurber
Conrad Aiken
e altri.

mi offrivano una opportunità e qualche speranza
in un posto senza opportunità
speranza
sentimento.

me la guadagnavo.
faceva caldo sotto le coperte.
qualche volte fumavano le lenzuola
allora spegnevo la lampada,
la tenevo fuori per
raffreddarla.

senza quei libri
non sono del tutto sicuro
di cosa sarei diventato:
delirante;
parricida;
idiota;
buonannulla.

quando mio padre gridava
“LUCI SPENTE”
son sicuro che lo terrorizzava
la parola ben tornita
e immortalata
una volta per tutte
nelle pagine migliori
della nostra più bella
letteratura.

ed essa era lì
per me
vicina a me
sotto le coperte
più donna di una donna
più uomo di un uomo.
era tutta per me
e io
la presi.

 

*

 

un posto a Filadelfia

non c’è niente come esser giovani
e affamati,
vivere in camere ammobiliate
e far la parte dello
scrittore
mentre gli altri hanno
i loro mestieri e
i loro averi.
non c’è niente come essere
giovani e
affamati,
ed ascoltare Brahms,
a pancia sgonfia,
manco un’oncia di
grasso,
allungati sul letto
nel buio,
fumando una sigaretta
rollata alla bell’e meglio
e lavorando sulla
ultima bottiglia di
vino,
i fogli che hai
scritto sparsi per
terra.
ci sei passato sopra,
avanti e indietro e di traverso,
sui tuoi capolavori che saranno
letti
all’inferno
o forse
masticati da un
topino
curioso.
Brahms è l’unico
amico che hai,
l’unico che
vuoi,
lui e la bottiglia
di vino,
mentre capisci che
non sarai mai
cittadino del
mondo,
e se arriverai
vecchio
fino in fondo
lo stesso non sarai mai
cittadino del
mondo.
vino a Brahms
si mischiano ben bene mentre
guardi le
luci
rincorrersi
lungo il soffitto,
per gentile concessione
delle auto
di passaggio.
tra un po’ dormirai
e certamente
domani
aumenterà
la mole
dei tuoi capolavori.

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