Recinzioni
«Resta da capire, Antonio, come una cosa del genere sia potuta capitare a Larkin».
«Una targa in suo onore nel Poets’ Corner dell’Abbazia di Westminster e sembra spazzata via la sua sempre difesa e invidiabile coerenza!».
«Il poeta dell’understatement, Larkin, uno che in vita amava tenere un profilo basso, e aveva persino rifiutato, tra le altre cariche, la nomina a Poeta laureato, tra poco più di un anno celebrato nel luogo più sacro e istituzionale d’Inghilterra».
«E pare che il reverendo John Hall, il decano di Westminster, abbia scelto di scolpire sulla lastra i versi di Church going».
«Anche questa, una bella trovata: all’interno dell’Abbazia di Westminster una poesia sull’incapacità di comprendere la religione, e anzi una poesia che dichiara morta l’istituzione stessa della Chiesa. Che humour».
«Adesso me l’immagino il riservato Larkin, lui che diceva di pensare ai party letterari come l’inferno sulla terra, prepararsi a impacciate conversazioni con Ted Hughes, Geoffrey Chaucer, Edmund Spenser e altri, con un bicchiere pieno di sherry in mano».
«Guarda, lo immagino anch’io: scontroso e a disagio in mezzo a tutta quell’ufficialità che aveva sempre fuggito. La stessa scontrosità, lo stesso rifiuto di qualsivoglia tentativo di manipolazione in nome di una interiore coerenza al proprio sistema di valori che non fatico a immaginare in Zbigniew Herbert, che per certi versi somiglia tanto a Larkin».
«D’accordo con te. E vedremo poi in cos’altro si assomigliano, i due. Ma entriamo subito nel vivo di questa discussione sulla fedeltà a se stessi, di quella fedeltà che può scontarsi anche con la morte, riportando alcuni versi da una delle poesie più intense di Herbert, Il messaggio del Signor Cogito: “non ti abbandoni il tuo fratello Disprezzo / per spie carnefici vigliacchi – saranno loro a vincere / e verranno al tuo funerale gettando con sollievo una zolla / e il tarlo scriverà la tua biografia addomesticata”».
«So già che vuoi porre l’accento sul sintagma ‘biografia addomesticata’».
«Perché credo che si attagli bene al caso di Larkin. Accoglierlo a Westminster, e sia pure con una lastra commemorativa, equivale a disinnescare la coerenza del suo pensiero, che in vita aveva sempre difeso. Il suo agnosticismo, per esempio. Pensiero che viene così annacquato, snaturato, addomesticato appunto».
«Lo stesso pericolo che temeva per sé Herbert. Forse alla luce di una esperienza umana e politica diversa da quella di Larkin, nonostante i due fossero quasi coetanei».
«Del ’22 il poeta britannico, del ’24 Herbert».
«Che era polacco, di Leopoli. Anche se la famiglia del poeta era di origine inglese, giunta in Polonia dall’Austria. Nel ’39 il dramma della sconfitta dell’esercito polacco contro i tedeschi. E la conseguente occupazione di Leopoli, in base al patto Ribbentrop-Molotov, da parte dei russi, che la cedono poi nel ’41 alla Germania nazista. Herbert si impegna politicamente, fonda un partito clandestino, subito scoperto. E subito dopo, entra nella resistenza polacca, di orientamento anticomunista, contro i tedeschi. Dopo la fine della guerra, Herbert vive l’incubo dell’occupazione sovietica e dello stalinismo. Incamera pertanto l’esperienza di diversi sistemi politici: “Quest’addensamento ha suscitato in me un senso storico, una certa empatia, forse addirittura la capacità di comprendere la gente di epoche lontane”. Nonostante tre lauree, si adatta a lavori scarsamente pagati, e umili. Chi lo frequenta in quel periodo parla di un uomo “cortese, cordiale e mite”, impregnato di filosofia stoica: “Leggevamo dunque Epitteto, Marco Aurelio, e ci esercitavamo nell’arte dell’atarassia, cercando di estirpare dalle nostre anime passione e rivolta”».
«Una poesia, quella di Herbert, fortemente sollecitata dalla storia, Vincenzo. Il che è inevitabile in un paese in cui, come dice un altro grande poeta polacco, Miłosz, è “difficile difendersi dalla storia”».
«Una poesia però mai impalcata. Antiretorica, antilirica. Che trascende il dato autobiografico attraverso mascheramenti mitologici e letterari, che ne assolutizzano e universalizzano i temi. E uno stile asciutto, misurato, da leggersi, a mio parere, come presa di posizione e atto di implicita accusa contro l’imperante retorica, la vuota arroganza del regime comunista».
«Lo stile non è mai innocente, concordo. Come non lo era l’ermetismo degli anni Trenta in Italia: una parola pura, spolpata, verticale per fuggire la volgarità del Fascismo. A tal proposito riporto questi versi di Herbert che mi sembra avvalorino la tua tesi, e dicano inoltre come ‘la scienza del bello’ potesse aiutare a combattere e contrastare o quanto meno a smascherare i regimi totalitari, endemicamente privi di senso estetico: “Non c’è voluto certo un grande carattere / per il nostro rifiuto dissenso e opposizione / abbiamo avuto un pizzico del necessario coraggio / ma in fin dei conti è stata una questione di gusto / sì di gusto / […] Chissà se ci avessero tentato meglio e con più grazia / […] una dialettica di carnefici nessuna finezza nell’argomentare / una sintassi priva della grazia del congiuntivo».
«L’ironia sottile, l’assenza di punteggiatura, la limpidezza del dettato ne fanno un poeta di straordinaria godibilità».
«Ed è un autore, come lo fu Larkin, straordinariamente parco: solo otto raccolte di poesie nella sua carriera».
«Il che dà ancora più peso e importanza alla sua parola poetica improntata alla necessità e al rigore».
«A tal proposito, ancora dal premio Nobel Miłosz: “Perché è lecito scrivere versi di rado e controvoglia, / spinti da una costrizione insopportabile e solo con la speranza / che spiriti buoni, non maligni, facciano di noi il loro strumento” (corsivo mio)».
«Ritrosia a scrivere versi che ovviamente non vuol dire rinuncia. Herbert si rende conto che l’arte non possiede la forza di intervenire sulla storia o sulla società per modificarla o migliorarla. È convinto però che lo spazio in cui l’artista può intervenire sia la coscienza umana e che l’obiettivo della poesia sia di rendere l’uomo più sensibile nei confronti dell’ingiustizia e dell’umiliazione».
«La consapevolezza di essere nient’altro che un testimone, ancorché non indifferente, del proprio tempo. Lo dice chiaramente nella poesia Rapporto dalla città assediata che dà anche il titolo al suo terzultimo libro di versi: “Troppo vecchio per portare armi e lottare come gli altri – / hanno avuto la bontà di assegnarmi il ruolo minore di cronista / metto per iscritto – chissà per chi – la storia dell’assedio”».
«Significativo poi, Antonio, che nella stessa poesia di cui tu citi l’incipit, Herbert dica di non poter essere preciso su “quando l’invasione ebbe inizio”. Perché, evidentemente, l’assedio della Città continua sempre. Anche oggi, in cui, almeno in Occidente, l’assedio ha un significato solo metaforico, ma non meno pressante o urgente. Ogni uomo è un cittadino assediato, ci dice Herbert, e la poesia, anche oggi, è una delle poche forme di resistenza che ci rimane».
«Poesia come resistenza. Un concetto, almeno questo, mi auguro, non addomesticabile».
Due gocce
I boschi bruciavano –
e loro
s’intrecciavano le mani intorno al collo
come mazzi di rose
la gente correva nei rifugi –
lui diceva mia moglie ha capelli
in cui ci si può nascondere
avvolti nella stessa coperta
sussurravano parole prive di vergogna
litania d’innamorati
Quando il pericolo era grande
si saltavano negli occhi
chiudendoli forte
così forte da non sentire il fuoco
che gli arrivava alle ciglia
fino alla fine coraggiosi
fino alla fine fedeli
fino alla fine somiglianti
come due gocce
sospese sull’orlo d’un viso
*
La casa
La casa sulle stagioni dell’anno
la casa di bimbi animali e mele
riquadro di spazio vuoto
sotto una stella assente
la casa era il cannocchiale dell’infanzia
la casa era l’epidermide della commozione
la guancia della sorella
il ramo dell’albero
la guancia l’ha soffiata via la fiamma
il ramo l’ha cancellato un proiettile
sulla cenere friabile del nido
la canzone dei fanti senza tetto
la casa è il cubo dell’infanzia
la casa è il dado della commozione
l’ala della sorella arsa
la foglia dell’albero morto
*
A Marco Aurelio
Al prof. Henryk Elzenberg
Buonanotte Marco spegni il lume
e chiudi il libro Già alto si leva
l’argenteo allarme delle stelle
il cielo parla con una lingua straniera
è il barbaro grido del terrore
che il tuo latino non conosce
è la paura l’eterna oscura paura
ora batte sulla fragile terra
umana E vincerà Odi il rombo
è la marea Distruggerà i tuoi
libri l’inarrestabile fiumana
e del mondo crolleranno i muri
quanto a noi – tremare al vento e
di nuovo smuovere ceneri aria
morder le dita dir parole vane
trascinarci dietro ombre di morti
perciò Marco sospendi la tua quiete
dammi la mano sopra le tenebre
lascia che essa tremi quando il cieco
universo picchia sui cinque sensi
ci tradiranno universo astronomia
computo di stelle saggezza d’erbe
e la tua grandezza troppo immensa
e il pianto mio impotente o Marco
Le tre poesie riportate sono tratte dalla prima raccolta di Herbert, Corda di luce. L’edizione di riferimento è quella di Adelphi, a cura di Pietro Marchesani, con un saggio di Iosif Brodskij.
Zbigniew Herbert, nato a Leopoli nel 1924 e morto a Varsavia nel 1998, è considerato tra i massimi poeti europei del Novecento. È autore di otto libri di poesie, una raccolta di drammi e di due saggi. Nel 1993 è uscita in Italia, per Adelphi, una antologia che raccoglie il meglio della sua produzione poetica, tratta dai primi sette libri di Herbert, Rapporto dalla città assediata, adesso quasi introvabile, con una indimenticabile introduzione di Iosif Brodskij. Nel 2008 la casa editrice Il Ponte del Sale ha curato l’edizione dell’ultima raccolta del poeta polacco, Rovigo, tradotta da A. Niero.