Margherita_Giacobino su l'estroverso

l’autore racconta

Io l’amore per i libri l’ho assorbito da mia madre, che amava leggere e sottraeva tempo al lavoro per farlo. Lei, che non aveva potuto studiare, trovava nella lettura la conoscenza del mondo, e una libertà che la affrancava dai limiti della sua vita. Prima ancora di imparare l’alfabeto io possedevo già una raccolta di libri per ragazzi, messa insieme da mia madre, che aveva un negozio di alimentari, con i punti della pasta Agnesi. La lettura mi è sempre stata indispensabile, e dall’adolescenza in poi lo è diventata anche la scrittura, pur se praticata in modo selvaggio e clandestino. Per me scrivere ha significato prima di tutto cercare di dare voce a ciò che sentivo, mettere a fuoco il mio sguardo sul mondo; il linguaggio comunemente parlato attorno a me mi suonava spesso estraneo se non addirittura falso, e solo nella letteratura trovavo parole più soddisfacenti, che potevano aiutarmi a cercare le mie. Così il mondo dei libri è diventato il mio vero paese.
Ho cominciato molto presto a leggere in inglese, ero attratta da quella lingua e nella letteratura inglese ho trovato due cose fondamentali per me e per la mia scrittura: una tradizione, che affonda le sue radici nei secoli passati, di voci femminili, e una scrittura che spesso mescola ai toni seri e drammatici le molteplici sfumature dell’umorismo.
Il mio percorso di scrittura è sempre stato fortemente legato a quello delle mie letture; la pratica di traduttrice mi ha permesso di calarmi dentro intimamente in testi che ho amato molto, a partire dalla mia prima traduzione (Emily Brontë, Cime Tempestose), fino alla più recente (Sorella Outsider, di Audre Lorde). Il mio primo libro è nato come una ‘finta’ traduzione dall’inglese di un’autrice che non c’era, Elinor Rigby: bisognava inventarla e io l’ho fatto. Elinor Rigby è un’autrice che racconta storie divertenti e un po’ sornione di amori tra donne, avevo bisogno di lei come antenata.
Scrivere è per me una pratica quotidiana, se non scrivo sono di cattivo umore, mi manca qualcosa. Aveva ragione Patricia Highsmith quando diceva che la scrittura dà assuefazione come la droga, ed è per questo che si continua, indipendentemente dagli insuccessi, dalla fatica e dalle frustrazioni. Perché una volta che si è dentro la scrittura si sperimenta una meravigliosa libertà, che nel mondo reale non è dato conoscere. Superare i confini del sé, infrangere e cambiare le regole, liberare la visione dai paraocchi quotidiani e trasformarla in parola: tutto questo non è solo di importanza vitale, è anche fonte di grandissima gioia.
Per me è importante che la scrittura, quella dei libri che leggo e la mia, possieda una sua autenticità, una qualità che mi è difficile definire se non come: un’ eco di verità che risuona mentre si legge. Con questo non intendo autobiografismo, né realismo, intendo avere qualcosa di autentico da dire, una visione, un pensiero, un sentire che animano il gioco dell’immaginazione. Inoltre per me è importante una scrittura che pensa, che riflette la complessità del pensiero, quindi non viscerale, sentimentale o seriosa… il pensiero è sempre complesso e consapevole dei suoi limiti.
Scrivendo si insegue la verità, senza mai acchiapparla, al massimo la si intravede. Si dà senso alle cose, al vivere, ma subito rinasce l’esigenza di riformulare tutto. La scrittura è divertimento, liberazione dai luoghi comuni e delle costrizioni del potere. È vendetta a sangue freddo, riscatto e delitto perfetto. Il comico nella scrittura per me è sacro, non potrei mai rinunciarci. Per questo, tra l’altro, collaboro ad Aspirina, rivista acetilsatirica online, un’impresa che mi diverte moltissimo e in cui la scrittura esce dalla sua celletta e diventa condivisione, una festa collettiva.
Nella vita ho sempre fatto altri lavori, che mi danno da vivere e a volte mi piacciono anche. Tutte le volte che ho cercato di vivere di scrittura, ho smesso rapidamente perché non sopportavo le costrizioni a cui avrei dovuto sottostare. Meglio avere la scrittura per amante, in piena libertà – altrimenti perde di senso.
Il mio ultimo libro, Ritratto di famiglia con bambina grassa (Mondadori 2015) è sul tempo e la memoria, e nasce da due desideri convergenti, quello di far rivivere persone care che non ci sono più, e quello di definire me stessa attraverso chi mi ha preceduta e messa al mondo. Per me non è tanto una storia familiare, quanto una mitologia, un po’ come dipingere le stelle del mio cielo. Parla delle mie antenate a partire dalla fine dell’Ottocento fino alla mia infanzia, negli anni Sessanta. È un omaggio ai morti, un atto d’amore, un libro scritto solo per me, che non pensavo neanche potesse interessare altri. In questo caso la scrittura mi è servita anche a esprimere una cosa che sento importante: l’amore per la mia lingua natale, il dialetto piemontese, ricco di un humor di sopravvivenza, che consente di prendere le distanze dalle miserie del quotidiano.

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