Silvia Giacomini su l'estroverso

l’autore racconta

Per me scrivere è un perenne stato di sconfitta, un dover ogni volta ricominciare da capo a tentare di cogliere qualcosa che le parole non afferrano mai compiutamente. E una necessità.
Dove ci sono acque in cui per ogni sasso che affonda, per ogni soffio che sfiora, i cerchi che si allargano attorno alla ferita del tocco continuano a propagarsi senza trovare argine di terra che li spenga, scrivere è la necessità di offrire al moto ondoso una terra – non un argine di estinzione ma un luogo in cui possa dispiegarsi fino in fondo, incidendovi una testimonianza che resta in attesa di sguardo. Non scrivo per oltrepassare, ma per trattenere e continuare a interrogare. Per redimere dal tempo.
Da bambina era più semplice, allora scrivere era solo un gioco affascinante: la carta era la porta di un regno sconfinato, la penna una chiave magica, le parole mondi. Non avevo un particolare talento per la scrittura e la scuola mi opprimeva tanto da allontanarmi dai libri, ma l’immaginazione era il mio rifugio, il mio spazio sacro, la mia libertà raccolta. Conservo ancora il mio primo racconto: diceva di un bicchiere di vetro che si trasformava in una sorta di telescopio capace di scrutare lontano nel cielo e di un bambino che comunicava con le stelle.
E’ stato, tuttavia, durante l’adolescenza, quando il bicchiere della mia prima sete era in frantumi per lo schianto contro la consapevolezza della morte e troppe impossibili domande, che la poesia ha cominciato a venirmi incontro. L’adolescenza è talvolta quell’età in cui il pensiero, intatto nella sua sanguigna purezza, smantella tutto ciò in cui si credeva, e si rimane soli tra le macerie del mondo; se non c’è niente a cui aggrapparsi, si scivola giù, nel fondo. Nel fondo le mie mani trovarono la terra bianca di pagine di quaderno che percorrevo di scavi durante notti in cui cercare le parole era frugarsi disperatamente nel cuore per urgenza di luce; quando il pensiero si scontrava col proprio limite le metafore affioravano come sorgenti ataviche da una spaccatura nella roccia.
La poesia ci supera. Come se, in certi miracolosi attimi, una mano si posasse sulla nostra per guidarci verso una verità ancora da scoprire, muovendoci spontaneamente a lavorare di precisione per raggiungerla.
Vennero, poi, i primi salvifici amori (ci salva dal perderci chi offre uno specchio al nostro smarrimento), tra cui Leopardi, Nietzsche, Kafka, Pessoa, e le fondamentali persone che ho avuto, ed ho tuttora, la grazia di incontrare sulla mia via e che donandomi la loro sincera attenzione mi donavano me stessa. È lo sguardo dell’altro a restituirci trasformato in semina il nostro carico di cenere. Mi sembra che la società attuale, imprigionata nei propri parametri di efficienza e produttività, educhi alla fiera indipendenza piuttosto che alla fecondità della gratitudine, al distacco piuttosto che al tremore dell’essere in ascolto, all’affermazione di sé e alla competizione piuttosto che all’attenzione nei confronti degli esseri e delle cose che ci circondano.
La tentazione di essere vento, un libro che nasce da esperienze attraversate e dalla scossa di storie ascoltate, tocca il tema della solitudine fatale a cui condannano le parole vuote scagliate, spesso per noncuranza, contro una sofferenza a cui resta solo il corpo per comunicarsi senza essere fraintesa o violata dal pregiudizio.
Credo che la poesia, ma in realtà qualunque forma espressiva tesa alla verità attraverso il totale coinvolgimento, in carne e affanno, della vita, abbia la facoltà, forse il compito, di riportarci alla nostra vulnerabilità e al suo valore di apertura, scoperchiando le ferite, le inquietudini e il vuoto; abbattendo quei luoghi comuni, quelle parole non pensate e quei pensieri non patiti che ci allontanano dalla nostra interiorità come dal centro nudo e vitale del nostro incomprensibile esserci. Opponendosi agli slogan che lodano chi, sempre pronto a rialzarsi dopo una caduta, cammina a testa alta verso i propri obiettivi, la poesia dovrebbe farci sentire il dolore dei fiori che i nostri passi noncuranti calpestano. Mostrarci come rimanere schiena al suolo sia lasciare che gli occhi ritrovino il loro originario dialogo col cielo.
Oggi considero la scrittura poetica soprattutto un esercizio di attenzione. L’attenzione, scrive Simone Weil, compagna di questi ultimi anni, nel suo grado più elevato, è preghiera. Mano stellata che per attimi racchiude la nostra e tormento di un continuo dubitare, accoglimento e sforzo, sangue e vigilanza, scrivere è la preghiera generatrice di speranza che, pur tra assoluti sconforti, ha sempre il potere di ricondurmi a quella scelta di credere in un segreto esser bene della vita che è il mio unico modo di stare al mondo.
Ogni creare è forse una lotta d’accettazione simile a quella di certi pini che con tutto il loro essere danno forma al vento che li percuote, piegando nella direzione del vento i loro rami. Nel momento in cui lo incarnano, ne percepiscono la luce.

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