Noemi Paolini Giachery è anzitutto un’elbana. Infatti, nonostante sia nata a Roma, la sua patria resta Marciana Marina. Questa condizione di “insularità” ne ha certamente influenzato lo spirito, portandola ad una lucidità quanto mai distaccata ma nondimeno partecipe nei confronti della realtà: «L’isola, separata dalla terra dei comuni mortali, soddisfaceva anche il mio desiderio di evadere in mondi lontani. […] Marciana allora – cioè prima della seconda guerra – fermava il tempo anche riportandoci a un’immutabile arcaicità, di impronta ottocentesca ma per me legata al principio dei tempi» (N. Paolini Giachery, Marciana marina, Marciana lontana, in Luoghi, tempi e oltre. Divagazioni di un’egotista, Manziana, Vecchiarelli, pp. 30-31). Dopo essersi laureata con una tesi su Giambattista Vico, si dedica ad una brillante carriera d’interprete letteraria, prediligendo l’analisi – condotta con approccio inedito e penetrante – dell’opera di Svevo (Italo Svevo. Il superuomo dissimulato, edito da Studium nel 1993 e ristampato da Aracne nel 2017) e di Ungaretti (Ungaretti verticale, Bulzoni, 2000; Ungaretti: Vita d’un uomo. Una “bella biografia” interiore, Aracne, 2014). Fondamentale si rivela l’unione col critico Emerico Giachery (coautore di Ungaretti verticale), il quale, in una lettera al poeta lucano Albino Pierro, la presenta come compagna d’intesa poetica oltre che sentimentale: «… è bello condividere, e condividendo fecondare, l’esperienza della poesia, in un’amorosa dialettica ricreatrice» (E. Giachery, L’interprete al poeta. Lettere ad Albino Pierro, Venosa, Osanna Edizioni, 1987, p. 55).
È con grande sorpresa che ho accolto la prospettiva di un Zeno Cosini “assassino”, ma la lettura che ne fa Noemi Giachery in Italo Svevo. Il superuomo dissimulato lascia pochi dubbi al riguardo. Eppure, il fatto che Zeno suggerisca al cognato Guido, intenzionato ad inscenare un suicidio, il Veronal che si rivelerà fatale, è parso irrilevante anche ai critici più attenti (persino a Mario Lavagetto che dell’autore triestino avrebbe curato il Meridiano Mondadori). Sembra che gli studiosi sveviani, molto più del protagonista del romanzo, abbiano praticato un “depistaggio” per eludere una realtà tutt’altro che inverosimile. Sostenere che nessuna delle affermazioni di Zeno sia credibile, se non quella secondo cui «una confessione per iscritto è sempre menzognera», è certamente bizzarro. Richiama piuttosto il paradosso di Epimenide: «Io sono cretese e i cretesi sono tutti bugiardi». Il fatto che i nomi più risonanti della critica abbiano “abboccato” fa pensare che lo scrittore triestino sia riuscito nella sua provocazione.
Basta conoscere le basi della psicanalisi freudiana perché ogni critica avanzata in questo Svevo dissimulato appaia pertinente, persino quella che vede nella scelta di Zeno di abbandonare la terapia non un “lieto fine” ma un rifiuto di affrontare le forze coattive della rimozione, a cominciare da quelle che gravano sul suo complesso edipico.
Noemi Giachery ha dimostrato anche doti di narratrice, soprattutto in Luoghi, tempi e oltre. Divagazioni di un’egotista. Ho faticato non poco, leggendo il volumetto, a vincere la tentazione di annotare ogni pagina, perché non vi è frase che non abbia almeno un periodo “rivelatore”. Eleggerei volentieri queste Divagazioni a “breviario di estetica”, perché di rado ho visto sviluppata, con erudizione di contenuti e leggerezza di stile, una tale disamina della vita e della poesia tra il “personale” e l’ “assoluto”, senza mai perdere di vista l’uno e l’altro polo.
Se Le forbicine del lattaio (cronache d’infanzia narrate da chi conserva, di quell’età, l’attitudine allo “svisceramento”), Marciana vicina, Marciana lontana ed Emerico e Noemi hanno una forte impronta autobiografica (a conferma di una visione “umanistica” del vivere, dell’interpretare e del fare arte), gli altri capitoli (compreso Du côté de chez Schmitz, che parte come analisi interiore per poi sfociare in uno studio illuminante non solo dell’opera sveviana ma dell’alibi che la stessa scrittura offre, permettendo all’autore di trovare nella «consapevolezza e nella contemplazione di se stesso la scusa per non cambiare») sono dei manuali di “istruzioni estetiche”, redatti con la causerie tipica di una donna colta ed elegantemente ironica.
Quando confessa di affrontare «temerariamente e con poche illusioni» la ricerca di un «lògos della poesia», Noemi Giachery non si accorge (nonostante l’egotismo che la ispira) di rivelare un modo personale di affrontare la vita e la letteratura, col coraggio e la spregiudicatezza di chi ama e, forte del proprio Io, affronta qualsiasi intemperie. Le uniche illusioni che si concede derivano da fiuto, gusto e udito, come quando evoca luoghi mai visitati ma conosciuti da sempre (a cominciare da Russia e Norvegia) o fa rivivere tempi trascorsi grazie ad un gusto che trascende ogni contingenza. È proprio la sua scrittura, come il lògos riconosciuto nella poesia, a reggersi su una tensione che non si risolve mai completamente, preferendo “indicare” piuttosto che “esplicitare” (espressione di Borges ripresa da Maria Corti) gli spazi della scrittura.
Per un orecchio come quello di Noemi Giachery, educato sin dalla fanciullezza alla musica di Wagner e Puccini, è stato inevitabile sviluppare una sensibilità drasticamente musicale, tanto da impedire, nella sua prosa, l’esistenza di una sola parola “stonata”. Dalla prigione di Reading, Oscar Wilde scriveva all’amato Bosie: «Qualunque cosa tu debba dire di te stesso, dilla senza timore. Non scrivere ciò che non pensi: questo è tutto. Se qualcosa nella tua lettera è falsa o mendace lo scoprirò immediatamente al suono» (O. Wilde, De Profundis).
Il “suono” di Noemi Paolini Giachery serba in sé la materia di un pensiero visceralmente elaborato. Allora la parola si modula naturalmente, ispirata da un pneuma che pare brezza di mattine all’Elba.