Premetto, prendo licenza una volta tanto di frappormi tra autrice e lettore, la lettura de “La terra che rimane” di Maria Allo ha rappresentato per me un’occasione di crescita personale. Parafrasando i primi versi di una bellissima poesia di Margherita Guidacci, rivolta al suo ipotetico lettore, Maria Allo mette la sua anima fra le mani di chi la legge, le curva a nido, e la sua poesia riposa in chi l’ha letta. Quasi un miracolo tra tanti, troppi, libri di inutile e sedicente poesia. “La terra che rimane” invece è da leggere e possedere.
Il libro parte quasi in sordina, con margini di poesia a margine, odori e segni dolenti, vissuti in ogni singolo attimo, lieve o greve che sia. Poi sempre meno timidamente si avvicina, e il lettore scopre che quegli attimi, quei versi non fanno parte del canzoniere di chi si alza ogni mattina col piede sbagliato. Appartengono alla terra, alla persona, che ne trattiene l’odore e i segni. “La nascita può spegnere la sete” ci dice l’Autrice a un certo punto, e quasi non ci si accorge di quanto già sia dentro in chi lo legge.
D’altra parte, se tutta la vita è cercare, in ogni modo e maniera, di lasciare tracce del proprio passaggio, la nascita ne rappresenta il primo atto. Un atto di nascita è anche quello di una poesia letteralmente strappata al proprio corpo, forma e mente di linguaggio unico e proprio per ogni autore che si rispetti.
Sarà chiaro ormai che ho amato questo libro in primis per la cura che l’autrice si prende del lettore. Ogni nascita, tuttavia, è temporanea, almeno fino a quando non risponderà alla chiamata “di un’ombra”. Tutto quanto sta in mezzo ai due eventi è un “frattempo”, dove la nascita è dapprima crescita, felicità, ricerca, poi malattia e corruzione, quindi delusione da vivere ogni giorno.
Ogni pezzo della raccolta che, nella sua straordinaria compattezza può essere considerato vero e proprio poemetto, tocca ognuno dei cinque sensi.
Sensi inferociti e assetati dallo stato di frustrazione e sofferenza. Qui Maria poteva benissimo imbroccare, fallendo, la via del cahier de doléances, e si sarebbe perduta nel descrivere situazioni di un io scosso, isolandosi e staccando la spina al lettore in una sorta di cordoglio autoreferenziale e utile soltanto a lei. I brani invece si dipanano nitidi, condivisi, pronti a più letture. Il libro stesso è impaginato senza divisione in sezioni: quando un autore non riesce a seguire un filo di compattezza che percorra tutta l’opera, spesso ricorre allo stratagemma delle sezioni, ma non è questo il caso. Seguono il proprio percorso, tirano dritto tra dentro e fuori. Il Fuori è coerenza, dignità, un forte amore per il proprio lavoro di insegnante (spesso tra i versi i riferimenti al lavoro sono molto marcati) nel “coraggio obliquo di chi non cede”. Il dentro è un altro luogo, la sorgente, l’unico ambiente in cui il dolore viene fuori e un cedimento è qualcosa di cui non vergognarsi.
Sarà che la terra, metafora insistita della condizione umana e paradigma di questa Poesia, ci alimenta e ci sostiene, madre/sorella, e nel contempo è lo scrigno a strati di epoche e memoria: il corpo stesso è terra, e lotta ogni giorno per prorogare il proprio distacco. È qui il vero nocciolo, fin dal titolo, di questo bellissimo libro, la terra è il libro di cui ognuno è parte. “L’alfabeto e i nomi di tutto l’universo incide.” E, ribadisco, è qui, la sua reale riuscita, il motivo per cui vale la pena leggerlo. Il privato diventa memoria da condividere pubblicamente. “Dobbiamo avere memoria sulle pelle/per rompere la terra che rimane”: e la terra che siamo è tempo, il tempo è convenzione umana che spinge a non nasconderci.
È così che “La Terra che rimane” poemetto a fogli sparsi non a caso, iniziato tra sensi feroci e autobiografici del proprio disorientamento di fronte a una malasorte, diventa lascito ma soprattutto incontro, le parole respiro, “per l’universo intero, tutto e tutti”: e senza paura di ripetermi, qui sta tutta la differenza tra le troppe raccolte di poesia e un’opera d’arte.
Scrisse William Carlos Williams “… niente di utile si trova nella poesia, ma l’umanità sta morendo miseramente ogni giorno per mancanza di ciò che si trova nella poesia…”.
(Flavio Almerighi)
Tre poesie da “La terra che rimane”
Lasciami parlare del mare e dei suoi abissi
si fa luce nelle trasparenze
come i ricordi o ciò che manca
– vedi – resta questa gola insabbiata
un foro dentro il petto
con sterpaglie in tutte le stagioni.
Lasciami parlare della notte quando si addensa
sulle tempie e sul tuo nome
allora mi rischiari e resti dentro questa carne
strappando l’ombra e la distanza che avvicina il cielo.
Lasciami il tuo coraggio arato sulle labbra
custodisce e abbraccia i confini del mare
come la memoria che resta e si trasmuta.
—
Non basta il mattino a restituirci il cielo.
L’alba e gli alberi colmi di distanza
non definiscono il nuovo giorno ancora.
Ecco, ancora una tragedia del mare,
un altro stupro a Roma le piccole odissee
di ogni giorno e le porte dei caffè aperte.
Solo un velo l’Etna oracolare mentre si muore
così la luce che ora brilla tra odori e radici
sembra un dono nella sua bellezza strana.
—
Una nuvola gialla incide le vertebre del cielo.
Con il susseguirsi delle ore si sgretola
senza redenzione sul dorso di un gabbiano.
Dobbiamo avere memoria sulla pelle
anche delle cose che non abbiamo avuto
come roccia che divampa e non si ferma
come acqua che nasce dal silenzio
per la parola del tempo senza una vera meta.
Soffia un vento insolito che ci assedia
da duna a duna con la sete e l’acqua
che ci sorprende al risplendere dell’alba.
Dobbiamo avere memoria sulla pelle
per vangare la terra che rimane.
—
Dunque questo mi lasci come verso:
la voce segreta − seme del tempo
e la pioggia fra le mani.
Nel tuo respiro tutte le parole,
tutto il silenzio
l’universo intero, tutto e tutti
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