La terra del sacerdote di Paolo Piccirillo

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Lo dico spesso: io scrivo per fare il passo più lungo della gamba.
Mi spiego meglio.
Prima di mettermi a scrivere ho sempre bisogno di pensare che non sono in grado di raccontare quello che ho in mente, sia per quanto riguarda le tematiche sia per quel che riguarda la struttura.
Devo provare un forte senso di frustrazione che si trasformerà poi in sfida con me stesso nel momento in cui la storia che ho in mente rimane viva, e mi fa pressione per venire fuori.
Perciò, protendendo attraverso la mia scrittura verso orizzonti che non conosco, indagando angoli di me e del mondo che solitamente, nella vita di tutti giorni, non frequento, mi aspetto tanto da essa, ovviamente; mi aspetto che mi faccia divertire, perché se non mi divertissi certamente non scriverei. E per divertirmi devo rischiare.
La mia infatti è una scrittura che contempla il rischio e quindi l’errore. Io cerco la perfezione, si chiaro questo, ma so anche che per questa mia attitudine indagatrice, questa mia necessità di fare il famoso passo più lungo della gamba, non la troverò mai.
D’altra parte il mio approccio alla scrittura non è stato un approccio classico, o meglio, un approccio che io credo classico. Voglio dire non mi sono avvicinato alla letteratura leggendo tanti libri e poi provando a scriverne uno io.
All’arte della narrazione mi sono approcciato tramite il cinema e i racconti che certi personaggi eccentrici facevano nei bar sotto casa mia.
Fin da ragazzino ho sempre guardato tanti film e poi, dopo i film, nel tardo pomeriggio passavo del tempo a sentire le bugie dei bar, facendo finta di prendere un semplice caffè.
Passavo da Kuturica e Monicelli, da Bunuel e Almodovar ai racconti dei pazzi storici del mio paese. Sapevo che la maggior parte di questi erano inventati di sana pianta, ma mi andava bene lo stesso, come mi andavano bene Kusturica e Almodovar; ho sempre pensato, o forse ho imparato fin da subito, che la realtà e la fantasia hanno la stessa dignità, la stessa importanza per me.
Non a caso io amo raccontare la realtà più cruda e pura alternata a squarci di iperrealismo, a tratti surrealismo; mi piace giocare con la presenza di simbologie auliche in situazioni estremamente brutali.
Nel mio ultimo romanzo (“La terra del Sacerdote” Neri Pozza) faccio proprio questo. In una storia che si presenta come molto dura e cruda, faccio muovere i personaggi con passi decisi ma sempre un po’ zoppicanti, quindi incompleti, come se la loro completezza andasse trovata in un’altra realtà, più magica e tenera, in un’altra terra appunto.
Uno dei protagonisti di questa storia è in un certo senso un albero, che soffre perché le sue radici non stanno crescendo bene nella terra in cui naturalmente si trova. E impiega tutto il libro per capire che lui, l’albero, è molto più forte delle sue radici e può scegliere dove andare a farle crescere.
Può e deve scegliere quale sarà la sua terra.
 
Paolo Piccirillo La terra del sacerdote - CopiaUn estratto dal libro
“La terra del Sacerdote”  (Neri Pozza)

“Maurizio Baffo di Cane porta una croce sulle spalle. Per questo cammina curvo. I piedi sono veloci, sono animati da una necessità, non stanno fermi un attimo. Tutti i giorni li passa cosí, avanti e indietro dalla piazzetta di Monteruduni fino alla provinciale, dove le macchine corrono e la campagna attorno, enorme, sta lí lí per mangiarsi quello sputo di cemento. Col sole e colla luna. Fino alle due, due e trenta della notte, tutti i giorni, Maurizio fa avanti e indietro, camminando piú forte che può, curvo di croce. Parte dalla piazza del paese e arriva fino all’imbocco della provinciale, poi torna indietro, di nuovo in paese, e ricomincia. Maurizio chiama questo andare e tornare «le passeggiate ». Chiama cosí la sua vita. Adesso è notte, sono quasi le due. Questa è la sua ultima corsa, dalla provinciale, dalla campagna, Baffo di Cane sta tornando in piazza. Sta per iniziare la piccola salita che porta al paese quando sente un grido, preciso nella notte, qualcuno che urla. Non è un urlo continuo. Ogni tanto si ferma, come se le corde vocali dovessero ricompattarsi perché ci sono delle unghie affilate che graffiano, ma loro resistono, si fermano, riprendono le forze e tornano a vibrare; acuti che toccano la luna. Qualcuno sta morendo, pensa Maurizio, che però è uno che ha paura di tante cose, soprattutto della morte. In paese c’è un ragazzino che quando lo vede gli grida forte di abbassarsi i pantaloni, tirarsi fuori l’uccello e mettersi le mani dietro la schiena. Maurizio ha trent’anni in piú di questo ragazzino e potrebbe anche prenderlo a schiaffi, ma ha paura che questo o i suoi amici gli facciano fare la fine di Vittorio «la Zoccola» che solo per non aver pagato da bere, dopo che aveva perso una scommessa, gli misero una zoccola di fogna nelle mutande e quella lo morse dappertutto. Vittorio è diventato pazzo per questa cosa e ora cammina sempre a testa bassa, saluta con rispetto tutti, pure i bambini nei passeggini. Perciò Maurizio obbedisce agli ordini. È per questo che ha paura della morte, anche quando non è la sua, e allora accelera il passo. Adesso sta correndo. E mentre corre si volta un attimo verso le grida. È la terra di Agapito il Sacerdote. Da lí proviene la morte”.

 

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