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Doug Holst

nautilus

Giocare a scacchi, da bambino, mi pareva un po’ come passeggiare in un bosco incantato. Mi ci addentravo con incoscienza e curiosità, trovando ogni volta nuove meraviglie che, come imparai in seguito, erano praticamente infinite. C’era un albero, in questo bosco, che sovrastava tutti gli altri. Mi ci arrampicavo ogni volta cercando la soluzione dei problemi che mi si presentavano sulle 64 caselle: era l’Albero delle Varianti.
L’albero aveva il tronco contorto, attorcigliato come un ulivo e radici profondissime. Dai rami pendeva una quantità interminabile di frutti, dai sapori incredibili, moltissimi dei quali mai assaggiati da nessuno. Alcuni di essi erano squisiti, altri scialbi, ma salutari, altri addirittura velenosi, a volte mortali, ma solo pochi riuscivano a individuarli. Una volta arrivato in cima potevo vedere uno spettacolo unico: la Foresta delle Aperture, dalla vegetazione rigogliosa e inestricabile; la Montagna del Centro Partita, dalla vetta ancora inviolata, su cui si erano persi moltissimi scalatori; il Lago detto “Inferno dei Finali”, sul fondo del quale si trovava una specie di museo subacqueo, di Pezzi Pesanti (Regine e Torri), Pezzi Leggeri (Alfieri e Cavalli), Pedoni e Re: come fossero statue affondate durante il trasporto.
Spingendo lo sguardo più in là si intravedeva una città, protetta da mura spessissime. Vi si accedeva solo da una porta: la “Porta dello Scacco Matto”.
Era un luogo dell’immaginazione. Vietato l’ingresso a coloro che ne erano privi.
Finita la partita chiudevo gli occhi felice, forse per un solo attimo. Poi li riaprivo, riponevo gli scacchi nella scatola e iniziavo a fare i compiti.

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