Giovedì 26 marzo alle ore 18 presso i locali del Camplus d’Aragona (via Ventimiglia 184) il poeta Nicola Bultrini (nella foto di Dino Ignani) sarà ospite del laboratorio di scrittura poetica ‘Le parole della poesia’ promosso da Centro di Poesia Contemporanea di Catania. L’intervento di Bultrini si articolerà prendendo le mosse dalla parola Figura che il diretto interessato ha scelto per sintetizzare il suo percorso poetico.
La parola da lei scelta per introdurre l’incontro del laboratorio “Le parole della poesia” è figura. Lemma che, relativamente a La coda dell’occhio e La specie dominante, ricorre solo una volta. Ci spiega l’importanza di questa parola per la sua poesia?
In realtà credo che “figura” (ben intesto, distante da un’accezione puramente estetica) sia importante nella poesia in generale, nella sua matrice. Ovviamente nelle varie declinazioni e sinonimi (propri e impropri); così, figura come immagine, come forma, come dimensione. Ma anche figura come persona, luogo, etc. Del resto noi, ogni volta che vogliamo esprimere qualcosa, qualsiasi cosa, dobbiamo dare consistenza esteriore e intellegibile ai nostri pensieri. Non possiamo sottrarci all’onere di dover “figurare/raffigurare”.
Nel suo ultimo libro, La specie dominante, si avverte un’istanza pedagogica molto forte. Il dialogo, più che lo scontro, tra le generazioni sembra finalizzato al ricomporre una “tradizione” insidiata da questo presente. Ciò si avverte maggiormente nell’identità onomastica transgenerazionale («Mio nonno / aveva questo mio nome») come negli insegnamenti impartiti al figlio («È gente che lavora, figlio mio, che si fa / in quattro»). Come immagina dunque il futuro della «specie»?
Non sono certo un “catastrofista”, anche se penso che il mondo stia attraversando un periodo di “barbarie”. Credo che sarà un periodo piuttosto lungo, ma questo non mi spaventa. Il mondo cambia da sempre e continuerà a cambiare, in tempi e modi che noi non possiamo neanche immaginare. Diciamo la verità, la storia dell’uomo ha attraversato periodi ben peggiori, ma soprattutto, i dinosauri sono stati la specie dominante per 160 milioni di anni, oggi sono solo rari fossili. Noi abitiamo la terra, al confronto, da pochissimo tempo. Ma poiché siamo ospiti temporanei, abbiamo il dovere naturale del rispetto e della responsabilità. Per questo il confronto (anche tra generazioni) è sempre necessario, anche quando si fa scontro. Per questo però, è altrettanto necessario il legame tra generazioni e quindi il continuum (anche in evoluzione) di valori primitivi. Non possiamo mai negare la nostra storia, anche quando non ci piace.
«Siamo come nani sulle spalle di giganti» scriveva Bernardo di Chartres a proposito delle relazioni con chi storicamente ci ha preceduto. È questo il senso che si nasconde dietro la prima sezione del libro, La terra dei giganti?
Innanzitutto, per sapere chi sono i nani e chi i giganti, dobbiamo vedere di chi sono le spalle! i giganti non sono certo necessariamente coloro che ci hanno preceduto. Né sono necessariamente i cosiddetti “grandi” della storia. Anzi, penso che i grandi nomi (da Cesare, a Napoleone, a Gandhi) hanno fatto ciò che hanno fatto, sapendo di poter contare su una massa anonima di individui, sui cui gesti piccoli e quotidiani, poggiano le loro gesta magniloquenti. Non voglio fare un discorso populistico. Penso semplicemente che la consapevolezza di questa tenuta dal basso del tessuto sociale, sia motivo di grande forza e speranza.
Nell’ultima sezione, Prospettiva angolare, che richiama dialetticamente la prima, lei scrive: «Ma tu sai cosa ci serve, / un’altra misura delle cose / non l’infinito piccolo che ci contiene». In questa «prospettiva», come si colloca o si potrebbe collocare la scrittura poetica?
È per l’appunto un’altra misura delle cose. O meglio e più in generale, un’altra visione. Una messa a fuoco della realtà che, se non offre risposte, rende più nitidi gli interrogativi. E consente una modalità di espressione alternativa, più libera e fertile, del linguaggio convenzionale. Una modalità più espressa nel tempo che nello spazio (ovvero nella materia). Quindi una misura molto più ampia; infinita, direi.
Come lavora Nicola Bultrini sui propri testi?
Prima di tutto, senza ansia e senza fretta. Affiorano versi, frasi, parole, nell’arco di un certo tempo. Le lascio “macerare” in silenzio e poi, leggendo e rileggendo (senza uno schema fisso), mi accorgo che tutti gli elementi si raggrumano attorno a vari nuclei. Allora osservo con grande meraviglia che cominciano a prendere forma (“figura”) masse consistenti ed omogenee, che esprimono qualcosa di profondo. Qualcosa che io sentivo, percepivo sottilmente ma intensamente, ma non riuscivo a identificare. Poi ovviamente, c’è il lavoro artigianale e anche questo è un momento di grande sorpresa ed euforia. Ma il lavoro dell’arte impone anche una disciplina e un rigore assoluti. Non si può bluffare. Da quel materiale deve essere davvero eliminato tutto il superfluo, deve rimanere solo ciò che è assolutamente autentico, aderente alla vita.
Supponiamo che uno di quegli «altri figli che / non conoscete» cui fa riferimento il testo liminare de La specie dominante le faccia la seguente domanda: ‘Perché la poesia?’. Come risponderebbe?
L’uomo ha avvertito la necessità ineludibile di “cantare” la vita, dalla notte dei tempi. Il suono, la parola hanno sempre avuto una funzione di ascesi, trascendenza. La poesia è il grado primo di questo andamento verso l’alto e contemporaneamente verso il basso. Ma questo non vale solo per la scrittura, anzi deve valere prima di tutto per la lettura. Possiamo intendere la poesia come una forma di preghiera (anche in senso laico naturalmente) in cui la voce trova un respiro più ampio, che apre a infinite variabili. Per questo la poesia è in grado di parlarci di noi, di rivelarci di noi, più di quanto possiamo lontanamente immaginare. Sempre in maniera inaspettata, davvero come una epifania. Per questo, la poesia.