Tre decenni. Scritti politici
Elvio Fachinelli a cura di Dario Borso
DeriveApprodi
Quelli raccolti in Tre decenni sono la quasi totalità dei testi di tenore variamente politico consegnati dallo psicanalista Elvio Fachinelli (1928-1989) alla carta stampata (quotidiani, settimanali, riviste): di questi sessanta testi (dall’articolo al saggio, dal diario alla conferenza) cinquanta erano praticamente introvabili, mentre i restanti dieci sono comparsi in antologie ormai non più in commercio. Rivolta studentesca, lotte operaie, speranze e accelerazioni negli anni Sessanta; terrorismo, derive autoritarie, progetti di autonomia, delusioni e tracolli nei Settanta; riflusso edonistico, innovazioni tecnologiche e nuove forme di sopravvivenza negli Ottanta: questi fondamentalmente i temi trattati, con un approccio per chiavi e spie assolutamente inedite, per brevi rilievi sismografici che segnalano una realtà in continuo movimento. Non quindi storia, e men che meno enciclopedia – piuttosto un mosaico formato dallo sguardo obliquo di uno straordinario psicanalista. Che della psicanalisi e di Sigmund Freud ha adottato la capacità di cogliere i particolari illuminanti, gli imprestiti delle esperienze altrui, le persistenze di uno stile nell’alternarsi dei periodi. Tre decenni, appunto, che nella sua attività «giornalistica», col senno di poi ma la curiosità del momento, sezionò e ricompose, in una versione lieta e spietata del carpe diem.
La prova del bianco
di Anna Vasta
Le Farfalle
La raccolta di questi pensieri e aforismi di Anna Vasta è il frutto, splendido, di una riflessione inesorabile sulla poesia e sulle tensioni dell’esistenza che solo la poesia può portare. Qui aforisma non significa pensare breve, ossia un coup de scène che paralizza il lettore, l’istupidisce o lo irrita, ma lenta ripresa di situazioni e concetti che, come intorno a un mandala, proseguono per gradi verso un centro: è il rosario dei pensieri che si sgrana nel tempo della cosa stessa. Impercettibilmente, s’innesta quell’arte di arrivare alla fine delle cose, dei rapporti e di noi stessi, così necessaria, così autentica, che porta il lettore negli inevitabili abissi e precipizi dell’umano quasi senza accorgersene. E il coltello della disperazione, immerso nelle carni della vita, produce inaspettati istanti di poesia. Lama che ferisce e lama che risana, anche se per un istante, questa è la poesia! Sospinti in questo perfetto circolo, che però è una risalita dal Maelström della devastazione, anche noi siamo portati ad emettere una condanna verso la compiuta rovina del mondo, ma nello stesso tempo ci rassereniamo, perché, con rigore ed eleganza, Anna Vasta ci fa capire che serve ben altro che quella misericordia, o salvezza, che potevamo trarre dalle esauste riserve della pietas (dalla nota introduttiva di Paolo Manganaro).
La distanza delle orme
di Marco Bellini
La Vita Felice
La discreta chiocciolina collocata sotto i titoli della raccolta e delle singole sue partiture, quella @, costituisce una sorta di occhiolino a te rivolto perché, volendolo, tu possa soffermarti, aprirti un varco tra la carta e il silicio, il testo e il tasto, e provare a sconfinare, facendo su e giù, à la recherche del senso perduto, quel senso (il sesto? il millesimo?) che la poesia è ancora in grado di attivare ed esperire dentro il meandro di segni in cui s’accuccia la sua vocazione profetica/profatica. […] Non lasciarti però distrarre dal movimento del ludus belliniano, che non è affatto fine a se stesso, come ogni gioco che sia frutto d’intelligenza simbolica: la rete dei rimandi infra-testuali e degli andirivieni info-testuali è stata allestita sull’onda di almeno due nobili e sostanziali motivazioni […] (dalla prefazione di Lino Angiuli). I testi di Marco Bellini si nutrono di un sostanziale ottimismo verso la vita degli uomini e delle loro ragioni, di un universale spiritualismo che impregna ogni cosa della vita e della non vita; eppure la risposta è solo un’eco di ciò che fu la vita, vibrante per un attimo come gli epigrammi delle lapidi greche del quinto secolo, i ritratti delle mummie del Fayum, il coro dei morti di Federico Ruysch, le voci dei trapassati nel cimitero di Spoon River. (dalla postfazione di Sebastiano Aglieco).
In difesa della poesia
di Percy Bysshe Shelley
Mimesis
“I poeti sono i sacerdoti di un’ispirazione misteriosa; gli specchi delle ombre gigantesche che il futuro proietta sula presente; le parole che esprimono quello che non intendono. I poeti sono i misconosciuti legislatori del mondo”. Uno scritto teorico e denso della poesia romantica che ha reso famoso Percy Shelley. Da cosa deve difendersi la poesia in epoca romantica e oggi? Da ciò che è già noto, misurato, squadrato, sostiene Shelley, indicando così in modo ancora poetico e penetrante il campo della ragione. La poesia si nutre dell’ignoto e delle nostre sensazioni a contatto con le nuove scoperte dell’animo. Ma ciò che Shelley propone non è un rifiuto del logos, della speculazione. Ragione e immaginazione collaborano senza sosta, come il braccio e la mente. Ma la ragione è l’ombra, mentre la sostanza, il valore vero delle cose è colto solo dall’immaginazione. Percy Bysshe Shelley (1792-1822) fu uno dei poeti più rappresentativi del romanticismo inglese. Spirito ribelle e libertario avversò il filisteismo e il fariseismo della società inglese fino al punto di trasferirsi in Italia, dove passò gli ultimi anni della sua vita. Morì in un naufragio nel golfo di La Spezia. Tra le sue opere il dramma Prometheus Unbound, i poemetti Epipsychidion, Adonais e molti componimenti lirici tra i quali la celeberrima Ode to the West Wind.
La Balena di Ghiaccio
Antologia poetica
a cura di Maria Grazia Insinga
La Balena di ghiaccio è il titolo del Premio di poesia per i giovani dedicato al poeta orlandino Basilio Reale, patrocinato dall’Assessorato alla cultura del comune di Capo d’Orlando e dal Seme d’arancia di Emilio Isgrò. Scopo del progetto è la promozione della poesia contemporanea e del fare poetico. Ideato da Maria Grazia Insinga, il progetto si conclude con la pubblicazione di questa antologia che raccoglie i componimenti poetici scritti da studenti della scuola secondaria di secondo grado e da adulti nel corso di un Laboratorio di scrittura creativa e ispirati alle seguenti immagini archetipiche: le Sirene, la Tigre, gli Uccelli. “Si tratta – scrive la Insinga -, di immagini che ci nutrono in maniera differente con il loro carico simbolico. Ma forse hanno qualcosa in comune. Riportano in qualche modo – come Muse sovversive – all’amore potente per il linguaggio poetico: le Sirene con il loro canto e il loro silenzio, la Tigre con la sua energia creatrice e gli Uccelli – blu e rari – che sempre ci guidano”. Tace il rumore del mondo / e un abisso si spalanca / dove era crocevia di tempeste – ma un uccello / dal nome raro lo attraversava / di tanto in tanto / e ci rassicurava” (Basilio Reale). “La fucina della Balena – conclude la Insinga -, ha rappresentato fecondo punto di incontro con i poeti che hanno inviato i loro inediti da diverse parti d’Italia”.
Canzuna
di Marco Scalabrino
Samperi editore
«Li palori – confessa il poeta – sciddicanu ammutta ammutta / ntronanu lu balataru / si ncantanu ‘ n-punta di la lingua» compiono, cioè, il loro ciclo creativo (come lo definisce il Contini) passando dalla tumultuosa scorrevolezza e dall’eccitazione fonica al loro epilogo nella leggerezza del registro espressivo. La silloge “Canzuna” è un confrontarsi continuo dell’io con la realtà, che diventa genesi di nuclei creativi quali il difendere la propria solitudine esistenziale (sugnu lu sulu) dinanzi agli strali di lu munnu chi «mi squatral m’arrassa I mi bummia» (si noti la felicità espressiva dell’asindeto e dell’anafora dei versi!); quali il saper attendere «arrè ssa porta chiusa» del destino; quali il gridare la propria autonomia morale dinanzi ai trucchi e ai raggiri della quotidianità «cui acchiana acchianal mi ni futtu»; quali il contemplare l’acqua che «limpia I sauta I ridi I baccaria» e scorgere in essa il palpitare dello spazio e del tempo; quali il guadagnarsi un crogiuolo di tormenti «muntarozzi d’aschi I bummuli di lastimi I mi vuscu … » nel tentativo di intendere gli enigmi della vita umana; quali il risolvere in felice autocelia (chi divintai) l’interrogativo della propria identità; quali il confessare faceto della voglia euforica di «sulcari cu vommari d’ olivu» la storia di questa terra, e le citazioni potrebbero continuare. (stralci dalla prefazione di Carmelo Lauretta).
Metà di niente
di Mauro Macario
puntoacapo
“L’offerta era speciale / la metà di niente / prendere o lasciare / un’occasione da non perdere / la promozione stava per scadere / e io pure / allora me la sono aggiudicata / per alzata di mano / come si fa in Borsa o all’asta / malgrado la folla scomposta / calpestasse i corpi / per arrivare in tempo / a quell’ultima gara di proprietà”. Versi tratti dalla poesia “Svendita totale” tratta dal libro Metà di niente di Mauro Macario (puntoacapo Editrice) vincitore della 61ma edizione del Premio “Lerici Pea”. “La poesia di Macario – leggiamo nella prefazione dell’italianista Francesco De Nicola – è ‘necessaria’, è l’esito di un’urgenza interiore di affidare alle parole le tre corde centrali della sua ispirazione che è civile, elegiaca ed esistenziale. […] Macario scrive solo se dentro gli urge la necessità di farlo e farà così fino all’ultimo, mentre il poeta da bar “giura ogni volta che quella poesia / sarà l’ultima / si dispera / si disconosce / traballa sulla sedia / ma non si alza / prima di averla finita”. […] il vero poeta non è tanto quello che affronta temi originali o anche inconsueti e bizzarri, quanto piuttosto quello che ogni volta riesce a creare e a disporre di un linguaggio tutto suo proprio per esprimere in modo personale e del tutto inconfondibile il suo mondo interiore; e questo accade con evidente certezza nei versi di Mauro Macario”.
Miserere nostri
di Antonella Monti
LietoColle
“Ciò che sono è un mistero”. Nell’ultimo verso di una bellissima poesia del suo libro, scrive così di sé Antonella Monti. E questo sentirsi mistero, contraddizione, slancio, solitudine, verità, finzione, bellezza, desiderio, questa consapevolezza di essere “una sorprendente tragica meraviglia”, è ciò che dà all’autrice l’energia per cercare attraverso la poesia l’essenza della propria vita. L’autrice sa che il viaggio dentro l’abisso della propria anima è senza confini, senza fondo, e che non basta una vita per compierlo. Eppure si mette in viaggio. Lontana dal tono medio e risaputo, omogeneo, di tanta poesia di oggi, è mitomodernista in una sua versione personalissima, e ha alle spalle il fantasma di un Foscolo classico, guerriero e ruggente, e, in parte inconsapevolmente, quello di Baudelaire, con la sua anima dilaniata, malinconica, nera, e i suoi improvvisi bagliori di luce sensuale. Sentite questi versi, e ditemi se non sono splendenti nella loro metafisica semplice e segreta: “Se potessi essere come sono/brucerei come un legno di cedro./Arsa in una nuvola di fumo/mi accompagnerei al vento/a seminare il mio pensiero/che, raccolto nella corolla di un fiore/ schiuderei ai giorni.//In corpo evanescente/parlerei al tempo/sfumerei nei petali caduti/e turbinanti/a delineare un sentiero/alla fine sempre lo stesso./Ciò che sono è un mistero”. (stralci alla prefazione di Giuseppe Conte).
L’apocalisse degli automi
di Salvatore Scalia
Domenico Sanfilippo Editore
Nel centenario dell’entrata dell’Italia nel primo conflitto mondiale questo libro è la prima analisi organica delle testimonianze, esperienze e trasposizioni letterarie degli scrittori siciliani sulla Grande Guerra. L’analisi parte dalla Sicilia per assumere una dimensione europea, così come il terremoto di Messina del 1908 costituì per molti volontari europei il modello dell’Apocalisse – rigeneratrice prima e distruttiva dopo – a cui andarono gioiosamente incontro, nella convinzione che il conflitto sarebbe durato pochi mesi. Il vecchio Verga fremeva dal desiderio di andare a combattere gli austriaci, Capuana preparò il terreno su cui sarebbe fiorita un’ondata di spiritismo, Pirandello, appassionato germanista, risolse letterariamente la necessità della conversione ideologica in nome del compimento del Risorgimento. Borgese ha lasciato la testimonianza più incisiva sulla disillusione dei volontari, sulla falsità dei miti marinettiani e dannunziani e sulla confusione del primo dopoguerra. Fu Rosso di San Secondo, di cultura mitteleuropea, a rappresentare la disumanizzazione della guerra attraverso la trasformazione degli esseri umani in marionette. Tomasi di Lampedusa raccontò d’aver ucciso un bosniaco: la brutalità e l’assurdità dell’esperienza al fronte permea tutta la sua opera. L’incontro traumatico con la ‘macelleria industriale’ della trincea è ricostruito attraverso una testimonianza dal basso: la cruda autobiografia di Rabito, contadino semianalfabeta di Chiaramonte Gulfi. Gli scrittori siciliani lasciano, ciascuno con la propria sensibilità, una testimonianza ancora oggi attuale della inutile atrocità della guerra e della vanità delle umane illusioni.
Piccoli esperimenti di felicità
di Hendrik Groen (Traduzione A. Rossi)
Longanesi
Ottantatré anni e un quarto sono più di trentamila giorni. E sono proprio tanti. Ottantatré primavere senza la certezza di vedere la prossima, o che ne valga la pena. Hendrik è il tipo d’uomo che fa conti del genere ogni giorno. Anche perché nella sua casa di riposo c’è poco altro da fare. La vita trascorre placida, fin troppo: due chiacchiere con l’amico Evert; la curiosità per i nuovi arrivati e la sopportazione della severissima direttrice, probabilmente nipote di un ex gerarca nazista. Hendrik ha sempre fatto buon viso a cattivo gioco, ma ora si chiede se davvero ne sia sempre valsa la pena. E soprattutto se vale la pena di continuare così. E siccome nella vita bisogna avere dei progetti, o perlomeno fare degli esperimenti, Hendrik decide due cose. La prima: farsi dare dal suo medico la pillola della dolce morte. La seconda: prima di prenderla, concedersi un anno, e in quell’anno fondare un club. Nasce così il Club dei vecchi ma mica morti, con regole di ammissione rigidissime per partecipare alle varie attività, tra cui: l’ingresso a un casinò, un workshop di cucina, un corso di tai chi… In quest’anno di vita succederanno tante cose, ci saranno tante scoperte, tante perdite e molti piccoli esperimenti di felicità… E alla fine si vedrà chi l’avrà vinta: la pillola o una nuova primavera da attendere. Uno stralcio dal libro: Oggi mia figlia avrebbe compiuto cinquantasei anni. Cerco di immaginarmi come sarebbe. L’immagine si è fermata a quella di una bambina di quattro anni, tutta bagnata, ormai esanime tra le braccia di un vicino. Soltanto quindici o venti anni dopo è successo che non ci abbia pensato per un giorno intero. Domani ricomincio a scrivere di cose allegre (Lunedì 21 gennaio).
Dal mare che non c’è
di Calogero Restivo
Edizioni Akkuria
Il paese, l’infanzia, il poetare, i ricordi, i primi amori, i sogni di sempre, cantati, decantati, perdono ogni aura consolatoria, se mai l’avevano avuta, anche perché le difficoltà della vita hanno smorzato e disatteso ogni incanto della memoria. Accanto a questo intendimento si è propensi a ipotizzare anche una variazione di temi, argomenti, contenuti, proiettando lo sguardo oltre i familiari orizzonti del paese, dell’infanzia, della memoria, del mare: né terra né mare ma cielo: sciolto da ogni concreto legame spazio-temporale. In alcuni componimenti si coglie un senso panico, borgesiano, di immedesimazione, anzi, di identificazione con la natura: essere foglia, essere zolla, essere vento. “Al posto di questa assenza di voci / con il “cannolo” della fontana / che mesce acqua con rumore di ruscello / c’era la piazzetta che aveva canti e suoni / nella notte in cui avvampava la festa. // C’eravamo noi ragazzi / con la febbre di domani negli occhi / a divorare presenti nel tentativo di barare / e rompere i ritmi del tempo. // C’erano luci e passi di donne / con sguardi d pudore / nei sorrisi appena accennati / e le voci dei giocatori di tressette / assieme al venditore di fichi d’India / che le vendeva sbucciate poche lire // Rifugio sicuro alla pioggia gli archi / finestre aperte su un mare che non c’era / quando con rombi profondi / e tremori da incubo i tuoni annunciavano il temporale imminente / cancellati dal vento di novità. // Di fronte il vecchio fondaco / il tetto di canali di creta cotta al sole / rifugio a colombi e uccelli di passaggio / oltre a carretti e carrettieri / che nella notte contavano le stelle / prima di addormentarsi / oggi ha palazzi alti / che gareggiano con le nuvole / e guardano dall’alto in basso / i lampioni che stillano / luce indecisa nella via.” (La piazzetta).