Un nuovo interesse si sta accendendo attorno alla figura e all’opera di Guido Giuliante (1912-1976), medico, poeta, drammaturgo e uomo politico di Pennapiedimonte, in provincia di Chieti. In realtà l’attenzione per questo ingegno così attivo e poliedrico della cultura abruzzese (come autore di testi per canzoni ha partecipato alla Maggiolata di Ortona, al Festival di Vasto e alla Settembrata di Pescara) non è mai realmente scemata. Dopo la sua scomparsa il linguista introdacquese Ernesto Giammarco, che a Giuliante era legato da un profondo rapporto di amicizia, ha continuato ad occuparsi della sua poesia, mentre lo studioso chietino Vito Moretti ne ha raccolto i versi inediti (Vocia annascoste. Poesie dialettali inedite, Chieti, Noubs, 1998) e gli ha dedicato un convegno (L’opera poetica e teatrale di Guido Giuliante. Atti del Convegno e inediti, a cura di Vito Moretti, Pescara, Tracce, 1998). Lo scorso anno, grazie all’interessamento del suo secondogenito, Dott. Luca Giuliante, che sta scrupolosamente riordinando le carte paterne, l’archivio di famiglia – compreso quello del padre di Guido, “don Felicetto” (a questa rilevante figura dell’arte abruzzese è dedicato il volume Felice Giuliante. Ultimo scalpellino della Majella, primo scultore delle botteghe d’Abruzzo, Ortona, Menabò, 2017, a cura di Luca Giuliante), apprezzato “maestro di scalpello”, come lo chiamava Federico Spoltore – è stato vincolato dalla Soprintendenza archivistica e bibliografica d’Abruzzo e Molise. Intanto lo studioso Enrico Di Carlo sta lavorando a una biografia che ricostruisca i molteplici aspetti e interessi che hanno caratterizzato la vita del medico pennese.
Nel dicembre 2021 la casa editrice Carabba di Lanciano ha pubblicato l’opera omnia di Guido Giuliante, Le poesie (1956-1986), a cura di Antonella Del Ciotto, con una premessa di Antonella Di Nallo e un’introduzione di Gianni Oliva. Il critico vastese inquadra con acume i tratti distintivi della sua scrittura, riferendola a una possibile linea abruzzese che identifica in una «poesia sana, incontaminata, ancorata ai sussulti della macerazione riflessiva come un baluardo da contrapporre alle degenerazioni dell’industria culturale». La lettura di questa opera omnia rivela non solo una vasta produzione letteraria (dalla raccolta d’esordio, L’addore de lu nide, Pescara, Edizioni “Attraverso l’Abruzzo”, 1957, alla postuma Il Rosario, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1986) ma quelle che potremmo definire le “diverse lingue” di Guido Giuliante. C’è da riconoscere infatti, a seconda delle pubblicazioni, un uso multiforme del dialetto abruzzese: predominante è la koinè regionale, di cui furono precursori Cesare de Titta e Alfredo Luciani (Giuliante appartiene alla loro stessa area regionale), esercitata nella prima parte della sua produzione, in L’addore de lu nide e Ro-zì (Roma, La Fiaccola, 1958); nella raccoltina 20 di Morze (Edizioni dell’Ateneo, 1965) l’autore si affida, dialogando con le figure della sua infanzia, alla parlata di Pennapiedimonte (rilevanti, da un punto di vista linguistico, la metafonesi di “a” ed “e” in “o”, così che “stanze” e “pareve” diventano “stonze” e “parove”, e i numerosi esempi di dittongazione, come “bbalecaune” per “balcone” e “liostre” per “lustre”); nei libri a carattere religioso, da La vije de la croce (Edizioni dell’Ateneo, 1965) a La Sagra dei Talami (Chieti, Marchionne, 1964-67), ma anche nell’elegiaco Sapisce, terra d’ore! (Marchionne, 1977), a quella etimologica Giuliante predilige una grafia fonetica del chietino, quasi a rimarcare la matrice popolare dell’argomento (invece di “muntagne” troviamo “mundagne” o “’n giele” al posto di “’n ciele”). Interessante ma non di particolare rilievo la sua produzione in lingua (Luci nel pantano. Poema sinfonico, Edizioni dell’Ateneo, 1975) che di certo non eguaglia quella in dialetto. Contrariamente a quanto affermato dalla curatrice del volume, secondo cui l’italiano e il vernacolo risultano «entrambi interscambiabili e ugualmente efficaci», l’autore trova nel dialetto il suo vero linguaggio.
Senza dubbio Giuliante risente della lezione detittiana, pur senza la tensione narrativa che il poeta di Sant’Eusanio del Sangro dimostra in opere come Gente d’Abruzzo. Nei suoi versi ritornano piuttosto gli acquerelli di Terra d’ore, di cui riprende non solo la levigatezza dell’endecasillabo – Giuliante maneggia bene il sonetto, la canzone (endecasillabi alternati a settenari) e addirittura la strofa saffica (come in Famme arepijà fiate) – ma anche il gioco musicale, dinamico nel ritmo quanto negli accostamenti fonetici, fatto anche di asprezze linguistiche: si leggano, ad esempio, Lu fiume, «S’arricce, se ’ntrecce / tra mezze a le vrecce: / nu rise che scroscie, / brillante che scrizze», e ’Na fonte pe’ sta sete, «All’ombre de nu mànele fiurite / ce sta ’na funtanella annascunnate: / tê na cannelle tutta arruzzenite / nche nu ceppelle che ce sta ’nturzate». Seppure nel tono sommesso e contemplativo con cui si raggomitola nella nostalgia si possa ravvisare un’influenza pascoliana, è altrettanto chiaro come per Giuliante la memoria non sia «abiezione che funghisce su sé», per dirla con Montale, ma resista come eredità fruttuosa d’ispirazione (al contrario di molti epigoni pascoliani). Non a caso Ottaviano Giannangeli riconosce che «dopo il de Titta, il Nostro è, tra i dialettali abruzzesi, da additarsi come il più genuino rincalzo pascoliano» (Canti della terra d’Abruzzo e Molise, Milano, Guido Miano Editore, 1958, p. 73). Del poeta di San Mauro l’autore abruzzese riprende anche il gusto onomatopeico, come quando riproduce nel bisillabo “ro-zì” (titolo della sua seconda raccolta) il verso della cinciallegra.
Ciò che impressiona particolarmente è la produzione “religiosa” di Giuliante, a cominciare da La vije de la croce in cui vengono ripercorse le “quattordici stazioni” della Passione di Cristo. A colpire sono la tensione drammatica e l’afflato corale – per quanto ogni poesia sia impostata come personale invocazione al Nazareno – della narrazione in cui riecheggiano le preghiere e i canti religiosi recuperati dal folclorista Gennaro Finamore (anche lui, nativo di Gessopalena, dell’area geografica di Giuliante). Nella Sagra dei Talami troviamo addirittura la versione dialettale di brani del Vecchio e del Nuovo Testamento. Tuttavia uno spirito cristiano pervade l’intera opera del poeta.
Crediamo non ci sia modo migliore per concludere questa celebrazione della riscoperta di Guido Giuliante che riportare le parole indirizzategli, in un’intervista per il periodico “La Voce di Fossacesia” (20 luglio 1973), dall’amico Lelio Porreca: «Tu, Guido, lascerai molto di te. Non tanto per la quantità degli scritti ma per ciò che essi esprimono, ossia per la qualità: la costante poetica del tuo cuore. Un cuore che tu, chirurgo, hai ritenuto non una pompa fisica ma un alito divino. Ogni giorno tu hai poetato. Così come i religiosi pregano ogni giorno, ecco, ti sei rivolto al Cielo e al Cielo ti sei avvicinato. Con la poesia».