Luigi Di Ruscio e la sua prosa-poesia “onnivora”

Aprendo e richiudendo quest’antologia definitiva dell’autore fermano scomparso nel 2011 ˗ frutto di un lavoro di riscrittura ad opera dello stesso, ma anche di assemblaggio, coraggiosamente intrapreso da Massimo Gezzi ˗ l’interrogativo che si pone è se uno sia di fronte a una grande esperienza poetica del secolo scorso, ingiustamente negletta, oppure no. Di Ruscio, di certo non è solo un poeta-operaio, come lo si è voluto far passare negli anni ‘70, alla stregua di altri che incollavano le loro poesie sui cancelli delle fabbriche, testimonianze utili a dare coraggio ai colleghi sfruttati e intossicati dal lavoro. Con Di Ruscio, la prima cosa che uno sente (superando le apparenze) non è la dimensione collettiva, bensì individualistica, sebbene lui fosse cosciente delle congiunture mondiali in atto. Non si tratta neanche di un autore rimosso, essendo antologizzato sin dagli anni ‘50 e stimato da nomi di un certo peso nell’ambiente letterario del secondo Novecento. Esiliato in Norvegia, poco più che ventenne, in cerca di fortuna, Di Ruscio ha potuto così sentirsi libero di crearsi una lingua letteraria bassa e ruvida, senza complessi rispetto alla tradizione italiana (la lettura di Antonio Porta è comunque evidente). Ma che questa lingua proletaria, incondizionata da quella del potere (e della società delle belle lettere), questa lingua che dice pane al pane e vino al vino sia la condizione necessaria e sufficiente per fare ottima poesia, non è affatto sicuro. Di Ruscio godeva di una libertà estrema, nonostante le sue otto ore di lavoro in fabbrica, e di un totale isolamento linguistico (dovendo parlare ogni giorno il norvegese e mai l’italiano). Quindi si affida principalmente ad un forte istinto ritmico. Un lettore sprovveduto direbbe che ha guardato alla poesia beat americana, ed è pur vero che le cose migliori le ha scritte negli anni ‘60, ma è facilmente immaginabile che operi allo stesso modo in prosa, perché gli interessa sì l’energia della corrente, ma molto meno la ripetizione e la percussività musicale. Egli mira a riprodurre una pressione lavica, magmatica, senza punteggiatura né metrica. Questa prosa-poesia non guarda in faccia nessuno, nessun lettore-tipo, non è né realistica, né simboleggiante. È orgogliosa della sua impurità, della sua pasta linguistica, ma non gioca molto (come facevano le avanguardie), è onnivora, post Trasumanar e organizzar. Eppure non sappiamo un gran che di quel che succede fuori, in mezzo al paesaggio norvegese. Il privato è sì politico, ma ritorna intimo, dunque le scene più nitide sono quelle domestiche. Se è in primis l’originalità del registro ad interessare Di Ruscio (i colori, i timbri, i lapsus, le smagliature) e in secondo luogo la protesta, non importa che quanto scritto rientri nel piccolo o grande canone poetico. Da questa nuova riscrittura, fatta con le forbici, non uscirà illesa la prima raccolta, in cui ogni verso è solo, ma troppo slegato dal suo precedente per far risultare il singolo componimento davvero compiuto. Dopo Le streghe si arrotano le dentiere (secondo e più ricco libro, ben rappresentato nel volume), gli anni ‘90 sembrano segnare l’estrema punta dell’ispirazione del nostro. Perché il nuovo secolo non pare più adatto per incidere su ciò che l’autore produce, chiuso nel suo studio. Ciò che rimane è una monotona serie di referti inanellati, appunti sparsi e persi, non a caso sempre più allusivi all’attività poetica. Infine, va detto che la lettura di questa selezione può essere al contempo utile, affascinante e pericolosa per un giovane poeta italiano. Se da una parte offre una buona lezione per uscire dal politicamente corretto e dalla medietà di una lingua troppo spesso appiattita e insapore nella poesia conformista degli ultimi anni, dall’altra, lo sbraco formale che tende alla cronaca disorganizzata dei fatti (enunciati, apprendistati) è la via maestra per accontentarsi di qualche pensierino. Ci viene sempre in mente, a tal proposito, il taccuino del vecchio Ungaretti. Riteniamo tuttavia un’esperienza di un certo interesse percorrere queste pagine e imbattersi in testi che nel migliore dei casi sono un sapiente impasto tra l’espressione di un’azione, una riflessione critica e un’immagine incendiaria. Quando tale fusione a freddo si compie, è un’occasione per rievocare il bel titolo di Carlo Levi: Le parole sono pietre.

 

c’è un rapporto preciso tra il clamore delle figure retoriche
e il livello dell’imbestialimento
mi dirigo verso la fabbrica sopportando
tutta l’irrisione del mondo che ancora dorme
per superare l’orrore del modello è necessaria
una terribile resistenza alla sofferenza
un realismo ridotto alla pura speculazione
realismo del tutto improbabile
di realtà ve ne è anche troppo e devo viverla tutta
scrivere esopismi oppure dada
è nella pura casualità che la cosa si esprime
ogni segno è diventato un drago

Luigi Di Ruscio, Poesie scelte 1953-2010, Marcos y Marcos, 2018

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