Luigi La Rosa, «Parigi ha reso possibile il desiderio di essere scrittore»

«La voce dell’uomo all’altoparlante sembra giungere da una lontananza di velluto e d’ovatta. Il velluto degli addii, degli abbracci, delle partenze. L’ovatta degli inverni, delle nevi perenni. È la stessa della volta passata. Ne riconosco la dolcezza, la finta informalità così marcatamente cordiale. Benvenuti a Parigi, dice. E m’introduce alla città come se davanti a me si spalancasse l’immenso ventaglio delle promesse e degli incanti». Si schiude così “Quel nome è amore”, nuovo libro di Luigi La Rosa, arricchito dalle mappe di Alessio Grillo come dalle fotografie di Chiara Zocchi, che, dopo “Solo a Parigi e non altrove”, entrambi editi da “Ad est dell’equatore”, sceglie di tornare nella Ville Lumière proseguendo idealmente un itinerario fortunato (anche questo volume è già alla terza ristampa) animato dal desiderio (palpabile) di raccontare vite straordinarie e disperate, «mosse dal fuoco del talento e della creazione». Al centro di un saggio colto distinto, come nello stile dell’autore, da una scrittura raffinatissima e fluente, Raymond Radiguet, Renée Vivien, Carlos Casagemas, Simone Thiroux, Djuna Barnes e Frédéric Bazille che, con le loro storie di sorprendente intensità, rivivono ad ogni passo accomunati dal «rapporto spasmodico, viscerale e assoluto con Parigi», città nella quale hanno scelto di vivere e, i più, di morire.  

Con (anche) l’abbandono, l’inganno, l’infedeltà, l’amore è (continua ad essere) uno dei tuoi temi portanti. La tua idea di amore coincide con la tua esperienza di vita?

L’amore è tante cose differenti. Ci sono state stagioni nelle quali l’idea dell’amore è stata burrascosa, tormentata come quella che ho narrato tra le pagine del libro. Altri momenti sono stati invece per me quelli della felicità spensierata, della leggerezza che illumina i giorni. La passione è esattamente questo: un universo in trasformazione, dalle leggi imperscrutabili, alle quali siamo tutti sottoposti. Nessuno può dirsene immune. Inoltre, la mia idea di amore è assolutamente greca: io credo nell’amore come malattia del cuore, come ossessione, come fuoco divorante. Se non si scende in questo abisso incendiario, non possiamo dire di aver amato davvero qualcuno o qualcosa.

Leggendoti si assapora l’antico splendore del tempo trascorso. Qual è (in generale) il ruolo della memoria nella tua scrittura?

Io sono un proustiano convinto, e proustiana è la mia idea di memoria, questo legame prodigioso tra sensi e vissuto, tra l’accadimento e il risorgere dell’edificio dei ricordi. Il tempo, in siffatto contesto, occupa un ruolo fondamentale. Nel tempo risorgono gli spettri che abitano le storie che racconto. I fantasmi sono in qualche misura al centro dell’epica del libro. La loro stessa esistenza è la prova che forse tale tempo non esiste veramente, e che siamo energie in fuga da un punto all’altro dell’universo.

(…) un rifugio, una direzione, una meteora di luce nel buio impenetrabile dell’esistere”. Con un passo dal capitolo intitolato alla scrittrice statunitense Djuna Barnes, per chiederti: qual è e da dove nasce il fondamento della tua vocazione?

Rispondere a questa domanda è particolarmente difficile, in quanto io scrivo praticamente da sempre, e il rapporto con la parola risale addirittura ai primi anni dell’infanzia. La mia famiglia mi tramanda vecchi ricordi nei quali un bambino in calzoncini corti sedeva su un ampio tappeto a riempire pagine e pagine di parole. Verso i sette anni nascondevo un quaderno scolastico che avevo riempito di poesie, delle quali ero gelosissimo. Poi venne un’adolescenza di letture, da Michael Cunningham, a Virginia Woolf, a Elsa Morante, a Sartre: autori diversi e lontani per cultura, provenienza, letteratura. Tutto ha influito e fortificato questo desiderio di essere scrittore. Parigi l’ha poi reso possibile.

 Cosa ha orientato la scelta dei personaggi?

Se dovessi riassumere in una formula sintetica la tua richiesta potrei dire che si tratta di esistenze che hanno raggiunto il loro senso profondo e ultimo attraverso Parigi e le sue fascinazioni.

Puoi parlarci della tua immedesimazione con i personaggi (personaggi colti nel momento della solitudine con se stessi) che hai scelto?

Un personaggio che amo particolarmente è Frédéric Bazille, la cui biografia romanzata chiude il volume. Bazille è figlio di un’epoca e ne intravede un’altra. Ama, con la disperazione della giovinezza, dipinge, è figlio di una ricca famiglia borghese di Montpellier ma soprattutto va incontro alla morte in una maniera oscura, balorda, misteriosa, che non ha ancora messo d’accordo gli storici dell’arte. Rimane, sulla scelta d’arruolarsi negli zuavi della guerra franco-prussiana del 1870, un’ombra fondamentale. L’interrogativo che mi sono posto è partito direttamente dai suoi dipinti, dai suoi meravigliosi nudi maschili, giovani uomini che sembrano partecipare a una festa dei sensi panica e irripetibile. In mezzo a tale pienezza ho colto delle ombre. In queste ombre un dolore. Non ho fatto che dare trama a questo dolore, nella speranza di comunicarlo al lettore.

“La fila dei militari coi fucili spianati m’inchioda a quello che fin dal primo giorno m’ero imposto di non voler vedere: la sofferenza di una collettività ferita al cuore dalla minaccia degli attentati, e le trasformazioni di una città costretta a prendere coscienza del suo nemico invisibile”.  Un altro passo  dal  tuo  libro  che testimonia del  ‘difficile’  momento  storico vissuto dall’umanità per mano dell’uomo. Di fronte a quello che accade, ad un terrorismo imperante improntato (pare) al «dividi e domina», che non risparmia nemmeno i più piccoli, qual è il senso odierno della scrittura?

Il senso lo dava Cesare De Seta, in un bellissimo pezzo sul mio precedente lavoro, apparso su l’Espresso qualche anno fa. De Seta definiva l’operazione realizzata dalla mia scrittura una sorta di resistenza estetica ai fanatismi, agli attentati, all’orrore recente. Più passano gli anni, più questa necessità sembra farsi imperiosa. Proprio davanti alla perdita dell’antica pace, allo svilimento della vita, alla mercificazione degli esseri umani, raggirati dal capitalismo dei consumi dietro presunte guerre religiose o ideologiche, non possiamo non tornare alla bellezza, alla letteratura, all’arte. Devono diventare il nostro antidoto al morire. Laddove falliscono i negoziati della politica e le rassicurazioni delle religioni, non rimane che l’arte. La sua armonia. Credo che sia un imperativo. Ed è quello a cui ho deciso di dedicare la mia vita.

Ci sarà un terzo libro intitolato alla tua Parigi? Così fosse poi darci qualche anticipazione riguardo i ‘nuovi’ personaggi che popoleranno le tue pagine?

Sul libro sì, sui personaggi no, perché non si sono ancora affacciati al mio progetto letterario. Il terzo libro parigino – che chiuderà quella che si è rivelata nel tempo una trilogia – partirà da un percorso personale, legato alle case che ho abitato nel corso di questi sette anni francesi. Una trentina di case, mansarde, piccoli appartamenti o semplici monolocali, che costellano l’intero tessuto urbano, da nord a sud e da est a ovest. Ho vissuto in pieno centro, in estrema periferia, vicino e lontano, in zone che conoscevo e in spazi letteralmente invasi dal turismo e dai sognatori (come me). Avevo dietro i miei taccuini e il bisogno impellente di annotare storie e personaggi. Il frutto sarà la tessitura della nuova trama in cantiere.

Per concludere, puoi raccontarci della tua prestigiosa e recente collaborazione con Touring Club per la Guida Verde di Parigi?

La curatela della guida verde di Parigi per Touring Club è stato un dono inaspettato, che è giunto direttamente dalla scrittura. Michele Lauro, direttore editoriale della collana, ha apprezzato a tal punto il mio precedente lavoro parigino da contattarmi e propormi di lavorare alla nuova guida uscita in settembre. È stata un’esperienza totalizzante e piena di bellezza, che mi onora e riempie di gratitudine, così come sono grato ai miei editori di “Ad est dell’equatore” per aver creduto nella mia opera e aver investito nei miei percorsi metropolitani.

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