Nella Casa del Bracciale d’Oro, a Pompei, si trova un suggestivo affresco di epoca romana, databile fra il 30 e il 35 d.C. raffigurante delle scene tratte da un giardino boschivo, un idillio naturale e dionisiaco. In queste scene ritroviamo la figura dell’usignolo. Fra i riferimenti simbolici e significativi incarnati dall’usignolo, vi è quello della poesia. Il poeta da sempre ambisce, per la sua arte, di raggiungere una raffinatezza direi naturale, simile al canto dell’usignolo.
E già sentiamo far eco Saffo nel suo celebre frammento:
Usignolo amabile voce messaggero di primavera (fr. 136 Voigt).
Fra gli altri lirici greci che hanno declinato l’immagine dell’uccello, troviamo Ibico («quando la nobile aurora insonne | ridesti gli usignoli», fr. 303 Davies) [1].
Il mito di Filomela
Il simbolo dell’usignolo va a collocarsi nelle sue origini mitiche, radicandosi nella storia delle sorelle Procne e Filomela, figlie di re Pandione, rispettivamente trasformate dagli dèi in rondine e usignolo [2]. Alcune versioni sono discordanti e vogliono Procne mutata in usignolo e Filomela in rondine. Fra queste narrazioni mitiche ne riscopriamo una nelle Metamorfosi di Ovidio nel libro sesto [3] che conferma invero la trasformazione di Filomela in usignolo:
I corpi delle discendenti di Cecrope paion mettere le ali: si librano sulle ali. Una volta verso i boschi, l’altra alla casa si accosta.
Prendiamo a modello la figura di Filomela per comprendere la morale della storia. Tereo, sposato con Procne, ma infiammato di passione per la cognata, rapisce con l’inganno Filomela e la stupra; per impedirle di raccontare della violenza subìta, Tereo le taglia la lingua con la spada, privandola così del linguaggio. Da quel momento la tiene segregata. La tradizione classica, per accrescere l’ironia della sorte, vuole persino che Filomela avesse il talento del canto e fosse istruita all’arte e alla poesia. Privata della parola, per comunicare l’accaduto fa pervenire a Procne un messaggio ricamato su una tela. La scrittura diventa uno strumento cui affidare, consegnare la verità. Una volta liberata Filomela, le due sorelle per vendicarsi dilaniano Iti, figlio della stessa Procne, e lo danno in pasto a Tereo, ignaro del complotto. Scoperto l’inganno, le insegue e nell’inseguimento le due sorelle «pennis pendere putares» e finanche Tereo viene trasformato in upupa. La perdita di linguaggio in definitiva porterà Filomela ad assumere un altro verbo. Vi troviamo un passaggio: dalla voce umana al canto naturale.
Il simbolo mitico – e quindi la proiezione del canto poetico nel canto nell’usignolo – mantiene la sua attualità nella poesia europea; lo troviamo riproposto e.g. dal Garcia Lorca delle Canzoni. Nella poesia Canzoncina del primo desiderio, si legge:
Nel pomeriggio maturo
volevo essere usignolo.
Usignolo.
[…]
E nella sera finitavolevo essere la mia voce.
Usignolo. [4]
E a seguire, in un’altra intitolata Sonetto (p. 161), troviamo:
Piaga d’amore, mi darà la vita versando luce pura e sangue eterno. Crepa in cui Filomela ammutolita avrà bosco, dolore e un nido tenero.
Il «rossignol» nel Medioevo
Nel Medioevo il termine «chant» trovava significativa corrispondenza nella recitazione pubblica o di corte di poemi le cui tematiche, la filologia ci insegna, erano amorose e cavalleresche. È nota l’irradiazione europea del canto grazie alla figura di trovieri e trovatori, e nella letteratura medievale il «rossignol» non era un’allegoria impopolare, era anzi dominante nell’immaginario comune. Maria di Francia, poetessa del XII sec., famosa per aver illustrato l’amor cortese e aver adattato le leggende orali della cosiddetta Materia di Bretagna, dedicò un Lai [5] alla figura del passero (Lai du Laostic oppure Lai de l’eostic; «eostig» in lingua bretone significa appunto usignolo). Si aggiungano poi alcune versioni della celebre vicenda d’amore fra Tristano e Isotta che vogliono Tristano imitatore del canto degli uccelli; riusciamo a recuperare un episodio del Tristan Rossignol, appunto il «Tristano usignolo», contenuto nel poema didattico anglo-normanno del XIII sec. Les domnei des amanz [6], dove il guerriero poeta imita il verso dell’uccello per cercare di avvertire Isotta della sua presenza:
Entur la nuit, en un gardin, A la funtaine sur le pin,
Di notte, dal giardino regale, si sente il verso triste dell’usignolo, Isotta ne avverte l’incanto e una malinconica tenerezza – perché riconosce la voce dell’amante, ma la presenza di Re Marco, ignaro dell’attimo, la trattiene per non farlo scoprire – la porta al pianto. Di conseguenza, Tristano si adopera per un altro linguaggio, per una lingua non convenzionale, poetica ed espressiva al fine di raggiungere e commuovere il suo cuore. Non a caso la tradizione manoscritta definisce Tristano poeta e musico, come Orfeo. Neanche l’origine analogica nel nome del personaggio (al termine tristis, ‘triste’ si faceva risalire il nome) passa inosservata alla critica filologica, e di fatti il Godefroy nel suo poderoso Dictionnaire de l’ancienne langue française et de tous ses dialectes du IXe au XVe siècle (1881-1902, al sost. Tristran, vol. 8, p. 80) riporta che chanter de Tristran significa esser triste. A conferma, il verbo chanter va ad identificare una condizione dell’essere perché nel canto o nella voce della persona si evince l’essenza del suo stato d’animo. Quindi il canto poetico denota l’essere (o il malessere) del poeta, con diretta corrispondenza fra voce ed essenza.
The romantic nightingale
Qualche passo avanti nel tempo e nello spazio, per giungere in un altro luogo geo-letterario, ci porta in Inghilterra. Parlando della poesia Ode to a nightingale di John Keats [7], Jorge Luis Borges in Altre inquisizioni ricorda che «l’infinito usignolo ha cantato nella letteratura inglese» [8] da Chaucer a Shakespeare, a Milton, a Swinburne (da notare, Swinburne scrisse una versione poetica di Tristano e Isotta), e la sua voce ha trovato posto nell’eternità. La stringente analisi dell’Omero argentino intende sottolineare un’evidenza: l’usignolo di Keats «è lo stesso usignolo di Ruth» in quanto nell’uccello individuale ritroviamo il rappresentante della sua specie, il tanto ricercato archetipo:
Thou wast not born for death, immortal Bird! No hungry generations tread thee down; The voice I hear this passing night was heard In ancient days by emperor and clown: Perhaps the self-same song that found a path Through the sad heart of Ruth, when, sick for home, She stood in tears amid the alien corn; The same that oft-times hath
Il verbo dell’usignolo
Nella poesia dal titolo Domaća, «Familiare», di Izet Sarajlić (1930-2002), ora nella raccolta curata da S. Ferrari [9], il poeta rievoca un incontro a casa fra amici. Atmosfera di convivialità dove tutti si ritrovano a cantare. Siamo a Sarajevo, nell’inverno «di un anno fra la seconda e la terza guerra mondiale». Fuori è l’inverno dove ancora sentiamo l’eco del piombo e della violenza. Dentro il calore della compagnia e del canto di gruppo. Indimenticabile il malinconico Les feuilles mortes prevertiano. Sarajlić nella poesia ricorda pure un canto popolare, Slavuje:
Solovy, solovy, ne budite soldat, pust soldaty, nemnožko pospjat nemnožko pospjat
(trad. it. di S. Ferrari: «Usignoli, usignoli,| non svegliate i soldati,| lasciate che i soldati| dormano un po’, dormano un po’…»).
Il termine «solovy», suggerisce qui una relazione (non necessariamente etimologica) fra le lingue balcaniche e quelle slave. In russo, per es., usignolo traduce «solovéj» (соловей). Affine è il sostantivo parola, in russo «slovo» (слово) e fra i vari significati indica il senso di lettera (dell’alfabeto). Una coincidenziale assonanza nella lingua polacca vuole che parola sia «słowo» e usignolo «słowik». Ma ahimè il dizionario etimologico polacco del Brückner ci informa che questi due termini derivano da radici etimologiche diverse [10]. Solo l’evocazione fonetica, affascinante pur se non esaustiva, ritorna utile per suggerire che il «verbo» dell’usignolo riecheggia da archetipo nel verso poetico. Il suo è un linguaggio «altro», rimanda alla canzone, alla musicalità. L’usignolo, simbolo della voce, edifica pertanto uno spazio sonoro. La poesia configura, più che la riproduzione, la riproposizione dell’incanto.
«In principio era il verso». Il mito di Orfeo
Il mito di Orfeo, è risaputo, non è soltanto una tragica storia d’amore, ma rappresenta l’origine mitologica della poesia stessa. In merito a questo ritorna rilevante un dettaglio della narrazione di Pausania sulla nidificazione degli usignoli: quando questi andavano a posarsi sulla tomba di Orfeo il loro canto si faceva più soave e persistente [11]. La narrazione non credo vada annoverata, quale proiezione allegorica, secondo il tradizionale schema dei bestiari a noi pervenuti (cfr Il Fisiologo o Il Bestiario di Aberdeen), ma c’è una corrispondenza: gli usignoli riconoscono il progenitore e sulla sua tomba cantano più forte. L’origine del canto è dunque nella poesia. Si può affermare con lo scrittore messicano Juan José Arreola che «en principio era el verso; nuestra lengua materna es la poesía».
[1] Saffo e Ibico (insieme agli altri poeti greci) in Lirici Greci (II vol., La lirica monodica), Mondadori 1993, rispettivamente alle pg. 275 (frammento 65) e 371 (frammento 10)
[2] È interessante notare – per questo e i miti in genere – come i poeti dell’antichità classica irradiassero il pensiero e la dottrina attraverso il mito, ragion per cui il mito aveva da sempre costituito la funzione di vettore non solo di una storia, ma anche e soprattutto di una riflessione filosofica e morale. Se consideriamo per esempio l’importanza per i Greci e i Romani dei miti di Orfeo e di Hermes (alias Mercurio) che rappresentano il linguaggio, la poesia e il canto, allora diventa facile comprendere come l’arte poetica giocasse un ruolo determinante per veicolare il messaggio tramite il racconto mitologico.
[3] Ovidio, Metamorfosi, vol. III, a cura di Gianpiero Rosati, Mondadori, 2009; il mito di Filomela è contenuto nelle pg. 91-109. Una versione italiana cinquecentesca delle Metamorfosi di Ovidio a opera di Giovanni Andrea dell’Anguillara: Le metamorfosi di Ouidio, ridotte da Giouanni Andrea dell’Anguillara in ottaua rima, Di nuouo dal proprio auttore riuedute, e corrette con le annotationi di M. Gioseppe Horologgi”, In Venetia: appresso Francesco de Franceschi, 1563
[4] F. G. Lorca, Poesie, RCS, 1996, p. 152
[5] I Lais di Maria di Francia risultano collazionati e tramandati nel noto manoscritto di Harley 978, conservato nella British Library, Londra; nell’incertezza del senso etimologico del termine «lai», l’ipotesi più credibile è la derivazione dalla parola (ricostruita) celtica «laid» con il significato di “canto” da cui deriverebbe anche il tedesco “lied” (canto).
[6] Il ms è conservato nella Biblioteca Phillipps nel borgo di Cheltenham. Fra i filologi romanzi che ne hanno parlato, si trova Gaston Paris nel suo articolo apparso su Romania, tomo 25, anno 1896
[7] J. Keats, Poesie, a cura di Silvano Sabbadini, Mondadori 1986
[8] J. L. Borges, Altre inquisizioni, a cura di F. Tentori Montalto, Adelphi 2000, p. 129
[9] Izet Sarajlić, Chi ha fatto il turno di notte, a cura di S. Ferrari, Einaudi 2012, p. 32
[10] Aleksander Brückner, Słownik etymologiczny języka polskiego, Krakòw 1916, ristampa del 1927, p. 501
[11] Pausania, Guida alla Grecia, vol. 9, La Boezia, 30.6, Mondadori 2010
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