salti quantici
Sono consapevole che cominciare a scrivere di un libro usando le parole degli altri non è pratica ortodossa ed è, allo stesso tempo, manifestamente illogica: se si decide di scrivere, è perché quell’autore e quell’opera ha suscitato riflessioni ed emozioni che urgono di farsi parola. Tuttavia, venendo meno a ogni canone, e rivendicando il diritto alla contraddizione, prendo in prestito la chiusa della prefazione di Maurizio Cucchi perché credo che esprima, in modo inquietantemente preciso, quello che ho provato quando ho finito di leggere la raccolta di Cetta Petrollo.
“Un libro accogliente e frutto di una sensibilità sottile e acuta…” scrive Cucchi. Sembrerebbero qualità consustanziali alla poesia, forse addirittura ontologiche, cioè, senza di esse, non ci sarebbe poesia. Anzi, qualunque forma di scrittura deve – rectius ha bisogno di – stabilire un dialogo con il lettore, altrimenti vivrebbe in un solipsimo psicotico che è il vero virus che ha infettato la società contemporanea in cui viviamo. E se la poesia vuole – necessita di – stabilire un dialogo con il lettore, deve necessariamente accoglierlo, includerlo, (non fagocitarlo come in “Videodrome” di Cronenberg, sebbene ci sia sempre capitato, come lettori, di “divorare”, ma, soprattutto, di essere divorati da alcuna letteratura, come nel dipinto del Goya) in una dialettica che nega le identità dei due movimenti per addivenire a una sintesi terza che, intanto, avrà cambiato radicalmente le parti colloquianti ma, soprattutto, ha provocato una vera e propria rivoluzione: per dirla con Manuel Benasayag, che cita Eraclito, ha creato “l’intera complessità dell’“unità dei contrari””. “Il segreto della coscienza – spiega Antonio Damasio – è di raccogliere conoscenza ed esibirla come un certificato di identità della mente”. Il nostro senso dell’“io” è definito dall’ “esterocezione” e cioè dalla nostra percezione del mondo esterno. Insomma, senza il rapporto con l’altro, l’“io” non esiste. Eppure viviamo in un tempo che vive nell’“espulsione dell’Altro”, ci mette in guardia il filosofo Byung-Chul Han. La rivoluzione della poesia – forse più delle altre forme di scrittura – è proprio questa: in un contesto di esasperato – e disperato – individualismo narcisista – “narcisista come chiarisce Christopher Bollas, come “desiderio di rimanere lontani da tutti” – che connota il nostro tempo, la poesia è “accogliente”, parla all’Altro, la voce poetica è un “io” che appartiene all’altro, che lo invoca, che gli chiede di “essere”.
La poesia di Cetta Petrollo è accogliente in un modo speciale, unico direi: la sua voce è pudica, si mette da parte, in un angolo, si sente finitima, e, con delicatezza, perché anche la melanconia è, nella sua poesia, di una dolcezza serena – o di una dolce serenità, se si preferisce, – immagina la morte come vita che rimane:“Per questo lascio/ la mia impronta calda/ su questa panchina di pietra… (la pietra conserva la memoria/ e mio nipote si siederà/ su questa pietra/ a Farfa, un giorno/ in una bella giornata di sole).
La poesia di Cetta Petrollo è accogliente, si lascia attraversare da tutto e lo contiene come madre, ventre che nutre la vita che le cresce dentro: si lascia attraversare dai luoghi (“Ecco si torna e mi ricordo/ dove ti ho lasciata/ in un vialetto che prendevi il sole/ sotto i pruni selvatici, le arance.” “Genova./ Mia amata.”), dal tempo (“Nemmeno un attimo/ nemmeno un attimo/ deve essere perso. Sobbollimento lieve./Assaporamento.), dai ricordi, che sono vivi e presenti e fatti di carne e gesti intrapassati (“Simone è diventato nuvola/ Valentino non cuoce gli spaghetti/ Donatella è un po’ che non la sento/Matteo continua a bucare il quadro/ in camera da letto/ Nanni non siede più/ sul nero seggiolone/ a via Margutta cantando il cane.”), dalla nostalgia (“Come vorrei a lungo parlarti./ E tu commenteresti incuriosito/ questi fatti del giorno/ chiedendomi interessato:“cosa hai mangiato?”), dall’amore (“e lei ricorda lui/ e la vita è un ruzzolare/fra le pietre/fra letti fatti e sfatti/ e baci d’uomo e corse.”), dall’età (“A loro dico/ che non è che sto male/ non è che sto poi così male.”; “se solo avessi la forza/ di aprire il presente/ di non lasciarlo serrato/ sospeso nel niente/ del corpo sopravvissuto.”; “e mi terrà compagnia/ quando sarà difficile alzarsi”), dal senso della fine (“È lunga la separazione/ non cessa per tutta la vita.”), dalle favole e dal loro lieto fine (“C’erano una volta certi figuri/ che non gli andava bene niente./ Una stregaccia li spazzò via.”).
Leggendo le poesie di Cetta mi è sovvenuto un bellissimo saggio di Anne Dufourmantelle (morta precocemente mentre cercava di salvare due bambini che stavano annegando ) dal titolo “La potenza della dolcezza” in cui la filosofa precisa che la dolcezza non è debolezza, la dolcezza “fa apparire lo scarto fra ciò che è e ciò che sfugge”, è “una decantazione che necessita, al principio, di una energia immensa raccolta, contenuta e sublimata fino a diventare immateriale”, la dolcezza “concerne fin da subito la questione dell’“essere insieme”, la prima cerchia del politico e dell’etico”. “Siamo entrati per effrazione tecnica – continua la Defourmentelle – nell’era dei rinnegamenti e dei rovesciamenti. Ora, io credo che la dolcezza resiste… come prima e dopo di lei, la follia, ma la follia rinuncia ai rapporti con il mondo detto reale. La dolcezza, no.”
La poesia di Cetta Petrollo è “frutto di una sensibilità sottile e acuta”, dice ancora Maurizio Cucchi nel concludere la sua prefazione. E anche in questo caso devo fare ricorso alle parole degli altri.
Nicola Ghezzani, in un saggio indimenticabile dal titolo “Il dramma delle persone sensibili”, scrive: “L’individuo sensibile è dotato dell’attitudine a cogliere ed esprimere l’armonia e ha pertanto una cognizione istintiva della bellezza. La specie ha creato e selezionato quest’attitudine perché essa ottiene un risultato adattativo straordinario: chi n’è dotato non può esimersi dal cercare l’armonia nel mondo, non solo contemplandola dove già esiste, ma anche – e soprattutto – producendola dove manca. Il membro sensibile di una comunità è portato spontaneamente a “lavorare” al miglioramento della realtà che trova nel mondo. Egli è a disagio nella vita sociale ordinaria, perché le norme culturali sono adeguate alla dotazione normotipica… non a chi possiede ricchi corredi genetici sia emotivi che intellettivi”.
La poesia di Cetta Petrollo è proprio la ricerca creatrice dell’armonia nelle e delle cose del mondo, armonia che non è consonanza e accordo di voci e di suoni, ma armonia, appunto, del mondo, è cioè la messa in sesto della molteplicità e diversità della vivenza. Ma è anche poesia eretica (non a caso le protagoniste di una sezione della raccolta sono le “streghine”), non solo perché scuote le certezze, sovverte la rigidità dei valori condivisi, ribalta i canoni, si oppone alle regole costituite, irride e sbeffeggia, con una sabba di versi, l’umana vanità, sempre “sull’asse d’equilibrio”, ma “in altro mare”, ma perché è “eresia”, nel significato greco della parola, e cioè “scelta” e quando si sceglie si rischia e il rischio apre al caso, a ciò che non è – ancora – conosciuto, che è incerto e “in- prevedibile” e, nel fare questo, anticipa, scatta in avanti, va fuori tempo, irrompe nell’inconoscibile e lo presagisce, caratteristica, questa, savasandìr, dei veggenti (e i poeti cosa sono?). Ancora la Defourmentelle: “Lungi dall’essere un puro “in avanti” volto verso l’avvenire, esso (il rischio) innesca col tempo e la memoria un’inversione delle priorità, per una sorta di rivolta, di rottura dolcissima (ancora) e continua.” Il rischio, insomma, crea un tempo altro, in cui il passato cessa di essere esperienza per il presente e diventa un continuo in fieri.
Giochiamo a contarci le dita è un gioco infinito. E che infinito sarebbe se lasciasse fuori di sé qualcosa?