“Un canzoniere umile e a tratti silenzioso, composto in uno stato di felice e ritrovata solitudine; una solitudine quasi tutta meridionale, e perciò piena di luce, di forti contrasti – naturali ed emotivi – e soprattutto di vibrante memoria; una manciata di versi ispirati e motivati dalla disarmante bellezza del poco, dalla commozione e dal vivo stupore di fronte a un campo di ulivi, secolari, e prodigiosi, come sa essere la vita”. Con queste parole l’autore, Marco Alemanno, descrive la sua prima raccolta lirica, un’opera (pubblicata da “La Nave di Teseo”) che raccoglie in sé – tra echi, citazioni esplicite e implicite, rimandi, suggestioni – un universo poetico che si vuole ampio, poroso, dilatato. Dalle atmosfere sospese di Luigi Ghirri alla poesia distillata di Eugenio Montale e Virginia Woolf, dai colori arsi di Vincent Van Gogh alla musica eterea di Claude Debussy: in queste poesie dal sapore antico, intimo, si registra una vicinanza – non scontata, faticosa, ma anche gioiosa – alla vita, alle piccole cose, e al dolore di ciascuno.
Qual è stata la scintilla che ha portato il tuo “in quieta anima felice”?
Direi che tutto è nato durante la notte del 31 dicembre 2018: avevo deciso di passare l’ultimo dell’anno solo in casa, leggendo poesie, e rivedendo 8 ½ di Fellini; poi a un certo punto, improvvisa, l’urgenza di scrivere. Sono andato avanti per 4 ore: riempivo i fogli di un vecchio quaderno, come se avessi messo da parte, da chissà quanto tempo, le parole che servivano in quel momento. Il mattino dopo, ho ripensato a quello che Pessoa definiva il suo “giorno trionfale”, quando quasi rapito in estasi compose di filato trenta poesie – firmando con il nome del suo primo eteronimo. Questo certo non significa che io pensi di paragonarmi al grande poeta portoghese, ma è successo qualcosa di simile; e soprattutto, da quella notte, continuo a scrivere quasi ogni giorno. La scrittura arriva nella mia vita quando avevo 13 anni, ma per pubblicare le mie poesie, ho scelto di aspettare, perché la mia voce poetica fosse più matura.
In che modo la (tua) vita diventa linguaggio?
Se parliamo di poesia, attraverso la ricerca attenta e scrupolosa della parola, perché possa farsi canto capace di raccontare la vita in versi – cercando il più possibile di avvicinarsi a quel difficilissimo equilibrio tra precisione semantica e musicalità. La vita in ogni sua manifestazione, intendo: la vita osservata, vissuta, e coltivata; la vita appena còlta e annusata; la vita gustata e assaporata, anche quando amara e disperata; la vita accarezzata, ascoltata e contemplata. Mi vengono in mente, rispetto al vivere da puri contemplativi, e all’atto di trasformare la vita in linguaggio, gli esempi di Emily Dickinson, Rabindranath Tagore e Christian Bobin, autori che amo particolarmente, e la cui sensibilità sento molto vicina. Le loro parole, insieme a quelle di tanti altri “maestri immensi” (direbbe Mariangela Gualtieri), mi ricordano ogni giorno che cosa voglia dire abitare poeticamente il mondo, per citare ancora Bobin.
La poesia è (anche) la lingua dell’invalicabile?
Questa domanda, immediatamente, mi ha riportato a Giacomo Leopardi e ai versi del suo capolavoro, che da anni mi è caro in modo speciale, L’infinito. Di fronte all’ostacolo, al limite, rappresentato simbolicamente dalla siepe, che esclude lo sguardo dalla possibilità di abbracciare l’orizzonte, l’autore sceglie di andare oltre, e crea, vedendo con occhi sovrumani e ascoltando, nel vento, l’eterna voce del silenzio. Perciò, almeno secondo me, sì: molto spesso la poesia è in grado di farsi anche lingua dell’invalicabile: il poeta è chiamato – come ci insegna il genio illuminante di Arthur Rimbaud – a farsi veggente; deve cercare parole che sappiano, o tentino di dire “dell’invisibile e dell’inaudito” per creare poesie “fatte per restare”, e in grado di emozionare anche chi le leggerà nei secoli a venire. Rimbaud dice che “si tratta di arrivare all’ignoto attraverso lo sregolamento di tutti i sensi”; bisogna trovare una lingua che sia “dell’anima per l’anima”; una lingua che sappia riassumere in sé “tutto, profumi, suoni, colori, pensiero che aggancia il pensiero, e tira”, per “scrivere silenzi, notti; segnare l’inesprimibile; fissare vertigini”.
Con i tuoi versi, “di te non resterà soltanto carta/ ma un respiro universale”, chiedo: la poesia può (realmente) colmare la pensosa solitudine del poeta?
Questi versi appartengono a un mio umile omaggio a Pierluigi Cappello, che considero uno dei più grandi poeti degli ultimi decenni. Un giorno, durante un mio viaggio nel suo Friuli, dopo aver riletto una sua poesia ho avvertito la forte necessità di parlargli (lui era già scomparso); e allora gli ho scritto una sorta di bigliettino, un po’ come quelli con cui si accompagna un regalo fatto con amore a una persona cara. Purtroppo non ho fatto in tempo a incontrarlo; però per me era importante dirgli quelle parole, per testimoniargli quanta grazia, quanta luce, e quanta sofferta, ma conquistata quiete mi restituiscono da sempre le sue liriche. Per rispondere: ritengo che, per un poeta, la poesia sia un’àncora gettata nelle profondità del suo spirito – anche (e soprattutto) quando infuria una tempesta; oppure una sponda a cui aggrapparsi, mentre “tra questa immensità s’annega” il suo pensiero, tornando di nuovo a Leopardi.
La poesia può risolvere – ancora i tuoi versi – “la segreta malinconia dell’aurora”?
Non direi risolvere – che sinceramente mi fa subito pensare che si tratti di un problema, per cui sia necessario trovare una soluzione; piuttosto, con quelle parole, ho cercato di trasmettere il fascino arcaico e misterioso che, secondo me, l’alba porta sempre con sé, con quella sua luce nuova, pronta a farsi strada e a segnare, instancabile, un altro inizio; pronta ancora a lavare via, con l’incendio dei suoi colori, il nero della notte. L’intera poesia nasce come un invito a liberarsi di tutto ciò che opprime e soffoca la nostra gioia, ricordandoci anche quanto siano preziose quelle che chiamiamo piccole cose: un fiore, una pietra, un umile pezzo di pane. Preziose come la vita stessa; preziose come dovremmo essere noi – tutti – anche se troppo spesso non ci facciamo neppure caso. Quando alla fine scrivo “segreta malinconia dell’aurora”, è un tentativo il mio per cercare di trasmettere la sensazione che mi prende, ogni volta, di fronte al miracolo dell’alba: quel velo, seppure leggero, di inevitabile tristezza, forse dovuto al pensiero di chi non può più prenderne parte; ma anche di chi – nonostante sia ancora in vita – per qualsiasi ragione personale, non può goderne, così liberamente e totalmente come faccio io: con viva, ardente gratitudine; e con autentico, e sempre rinnovato stupore.
La forma quanto incide sulla “verità” della parola poetica? E il “suono”?
Ho parlato prima di questo aspetto che, non solo secondo me, credo sia molto importante rispetto alla scrittura di una poesia: la ricerca attenta e scrupolosa della parola, la parola precisa, proprio quella che serve a dare forma, e suono, a un pensiero. In questo senso si muove il mio lavoro sulla brevità dei testi; per questo la mia cura maniacale, affinché un’idea o un’immagine possa trasformarsi in verso poetico, quindi puro suono, ma anche significato; capace nello stesso tempo di cantare e raccontare.
Qual è stato, ad oggi, il dono più prezioso ricevuto in dono dalla poesia?
Il dono di essere ancora in vita. Conosco da molto vicino il vero dolore da quando avevo 16 anni: ho perso il mio fratello maggiore, allora diciottenne, in un incidente in mare; è stata la prima volta in cui sono stato salvato dal mio amore profondo per la poesia e l’Arte in generale. Sentivo affine al mio atroce dolore quello di tanti grandissimi artisti, anche loro feriti dalla vita, e che però dal proprio tormento erano stati ispirati, per offrire agli altri parole o immagini figlie delle loro cicatrici. Virginia Woolf considerava l’atto di scrivere quasi come una terapia: “Penso di aver fatto da sola quello che gli psicoanalisti fanno con i loro pazienti. Ho dato espressione a un’emozione profonda che era lì da sempre.” scrive in Uno schizzo del passato. La parola come medicamento e cura; la poesia come compagna di luce e consolazione; i versi, come mattoni, a costruire ponti che attraversano i secoli e uniscono lontanissime generazioni. Quando poi mi capita di portare la poesia tra la gente – la mia ma soprattutto quella di tanti altri autori che amo – ricevere in cambio l’emozione vibrante, e soprattutto la gratitudine del pubblico, per me, è un altro dono inestimabile. Qualcosa sempre utile a capire, ritengo io, quanta sete di poesia e di bellezza ci circondi.
Per concludere salutando i nostri lettori, ti invito a scegliere una tua poesia dal tuo libro “in quieta anima felice” e, nel contempo, ti invito a portarci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.
Saluto e ringrazio, te e i lettori, con dei versi a cui sono molto legato: è un mio omaggio alla divina, immortale Saffo; Una corona di viole, il titolo. Un giorno ero in giro per le campagne in bicicletta, come spesso faccio, e per puro caso ho scoperto un antichissimo menhir, che da diversi millenni è a pochi chilometri da casa mia in Puglia, in un campo di ulivi. Il giorno successivo ho deciso di tornarci, portandomi dietro un libro da leggere: i lirici greci, nella traduzione di Salvatore Quasimodo. Seduto sotto un ulivo, e guardando il menhir, ho cominciato a scrivere.
Una corona di viole
Nasce profonda quiete
all’ombra di un sacro menhir –
nasce, risplende e vibra
l’invito di Saffo alla gioia
che abbraccia gli ulivi e le pietre
in un canto di foglie
nutrito dal vento – e dalla memoria.