Che cos’è la poesia ? La poesia è un mezzo. Anche il treno è un mezzo: forse anche per questo mi sono trovato a parlare di treni e stazioni. Più probabilmente credo di essermi solo innamorato della poesia e di avere sempre ricevuto attenzione e splendore da lei (beh, non sempre, magari ogni tanto). Ricordo quando ho iniziato a passare le giornate nelle biblioteche, ricordo Tutte le poesie di Ottiero Ottieri nella copertina completamente gialla dell’editore Marsilio, ricordo l’incontro con Elio Pagliarani e in particolare col suo capolavoro La ragazza Carla, un abbraccio che non è mai venuto meno, ricordo le piccole rigorose pubblicazioni di Roberto Roversi. E dopo qualche anno ecco arrivare l’ultima poesia anglosassone, di Seamus Heaney, di Ted Hughes, di Frank O’ Hara scomparso davvero troppo troppo presto. E negli ultimi anni ecco invece la riscoperta di Vittorio Sereni nella fondamentale precisione dei suoi testi, come fondamentale è per me oggi parola per parola il lavoro, l’opera di Mario Benedetti. Ogni autore davvero diventa come la persona amata che scende dal treno, dopo una lunga attesa, un’attesa lunga un viaggio, lunga una vita.
Poi c’è questa mia esigenza: quella di dare voce a chi non può più parlare, quella di ricostruire la storia e raccontarla non come qualcosa che è passato, piuttosto come qualcosa che vive quotidianamente. C’è un testo che ricordo spesso in questi giorni, Amsterdam, primo testo di un trittico intitolato Dall’Olanda nel quale Sereni affronta appunto il tema della memoria senza relegarlo all’immagine di una tragedia trascorsa, ma come ricerca di un senso in quelle presenti. Se questo valeva per l’Europa di Anna Frank ancora così duramente presente con la propria iconografia nel nostro immaginario delle barbarie naziste così anche La stazione di Bologna, la strage alla stazione di Bologna, la maggiore strage di civili del dopoguerra italiana coi propri 85 morti e 200 feriti vuole raccontare il senso che c’è attorno a una strage, cosa significhi la casualità del ritrovarsi coinvolti, di come queste persone abbiano nomi e volti comuni, simili ai nostri e alla nostra quotidianità.
Le stragi sono queste, sono il racconto di atti violenti, devastanti (come devastante è un evento climatico, uno tsunami, un terremoto) che spesso però nel loro profondo hanno un significato di cui vale la pena parlare: come la reazione dei bolognesi quel giorno, avvenuta l’esplosione. Ognuno davvero per come ha potuto ha trasportato le vittime, ha soccorso i feriti, ha donato il proprio tempo, il proprio sangue, la propria competenza professionale per aiutare, assistere. Forse erano altri tempi, forse in ognuno di noi ci vuole un riordino delle priorità che da molto vicino ricorda il riordino necessario quando si scrive poesia.
Forse, semplicemente, raccontiamo quello che vorremo, ad un interlocutore che vorremmo e che non sempre c’è, chiediamo attenzione nel traffico caotico, chiediamo quiete in un continuo rumore di fondo: cerchiamo di spostare una tempesta con un piccolo ombrello di carta. Chissà che cosa spinge a reagire a una barbarie così grande con tanta semplicità, chissà se oggi (io in primis) ne saremmo capaci. C’è ancora tempo per la poesia? C’è ancora tempo per provare un sentimento: dolore, rabbia, gioia, disperazione, amore? Mi chiedo se l’infinità di informazioni, stimoli, immagini non finiscano per saturarci, per rendere tutto polveroso, indecifrabile, impalpabile. In fondo il lavoro di questi anni è stato questo: cercare di capire che cosa sia successo quel giorno, non certamente solo dal punto di vista processuale, ma cercando di dare un nome e una vita a delle persone, cercando di raccontare la casualità di chi rimane coinvolto, e con esso i parenti, gli amici, i conoscenti, le comunità. Ho cercato di capire Il senso di una strage e perché uomini siano in grado di compiere atti così vili e altri così civili.
Poesie da La stazione di Bologna, Feltrinelli, Milano, 2017
Questo libro è dedicato a tutti quelli
che si trovavano a Bologna il giorno della strage.
Tutti tranne alcuni.
Aspetto davanti alla stazione di Bologna
Aspetto davanti alla stazione di Bologna
un mio amico residente nel bresciano
e che non vedo ormai da tempo.
Non tutti i viaggiatori sanno che lì
c’è un orologio rotto: alcuni modificano
il proprio, mentre altri si rivolgono
agli addetti chiedendo spiegazioni,
lamentando il disservizio.
E per certuni quella lapide è patetica,
porta tristezza alla mattina presto a questi
che si recano al lavoro. Gradirebbero piuttosto
un cartellone che la sostituisca,
qualcosa d’esplosivo, una pubblicità di sconti
eccezionali, di prezzi bomba, qualcosa
d’inimmaginabile, che colpisca le coscienze,
che sui passanti abbia un effetto devastante.
Il senso di una strage
C’è un attimo avvenuta
l’esplosione, tra le macerie
e i vetri, in cui si quieta tutto
prima delle grida, delle sirene
concitate: è un attimo
nel quale non si crede veramente
che sia accaduto quello che si vede.
È lì che si comprende
il senso di una strage,
quando il silenzio avvolge e copre
senza scelta e senza distinzione
come la gente attorno a una stazione
che prende il treno per lavoro
o per le ferie, a inizio agosto
di mattina, come sempre.
Se dalla Piazza ti incammini e prendi i portici
scoppia una bomba
nel cuore di Bologna.
due agosto ottanta.
Se dalla Piazza ti incammini e prendi i portici
del centro e riesci a superare in un sol colpo
quella folla, i saldi, le vetrine, i tavolini delle firme,
se riesci a non fermarti davanti a quel barbone
inginocchiato a mo’ di Cristo che chiede
le monete e prega tutti per i soldi, se a un tratto
ti fai forza e inizi a correre smettendo di vedere
altrove ti troverai d’un tratto alla sinistra
il luogo steso a gambe aperte e in mezzo la ferita
che ancora accenna, che ricorda il giorno
in cui la gente è stata tutta uguale per una volta,
e solo quella.
Tutti comunisti, preti. Tutti bolognesi.
Come un padre che scava solo e a mani nude
nei giorni successivi i taxi sono gratis per i parenti
delle vittime ricoverate presso gli ospedali cittadini.
Come un padre che scava solo e a mani nude
un figlio fino a sanguinare e che non smette
se lo getta addosso e non lo lascia,
carne della carne, pure se una gamba resta
sotto le macerie e Marco non potrà più essere
mezz’ala e correre veloce sotto la tribuna,
oppure tra i distinti laterali proprio dove stanno
spesso i familiari che applaudono comunque
qualsiasi cosa accada, perfino dopo una sconfitta:
come fa chi aspetta a casa con il fuoco caldo
sotto la minestra e che comunque resta.
Adesso questi volti sono tutti familiari
Adesso questi volti sono tutti familiari
li rivedo ovunque, sono i miei clienti del lavoro
o le cassiere del supermercato, o i ragazzini
delle scuole, i pensionati che divorano i giornali
nei lunghi viali della biblioteca. Vedo Torquato
e Carlo, Silvana e Mirco, Nazzareno, Salvatore
che hanno la mia età e un poco mi somigliano
rivedo Angela – 3 anni – che mi corre incontro
come Federico adesso, solo con il volto di Sofia,
che ancora non conosco. Poi Vincenzo che esce
dalle porte delle case qui a Bagnacavallo
e se ne va a Verona per vedere l’opera, anche lui
lo vedo tutti i giorni, è nei teatri in terza fila
sulla destra: non si perde neanche un attimo la scena
conosce ogni passaggio (io invece mi addormento
a volte, mi metto a scrivere, mi perdo). Ci sono
certi giorni che mi vengono a trovare tutti,
mi raccontano talmente tante cose che non riesco
neanche a contenerle. Allora sfuggono e ritornano
come fa la neve che si deposita poi ghiaccia
pazienta e quando esplode infine bagna
i campi e porta frutto, e non ti lascia.
Angela Fresu, figlia di Maria di cui non ritrovarono mai il corpo, solo alcuni resti saldati alle macerie
dopo molti mesi, troppo vicina al punto d’esplosione perché non rimanesse altro che il ricordo.
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la foto in copertina è di Daniele Ferroni