Milo De Angelis, “ogni poesia riuscita è una fiammella che percorre l’oscurità”.

Poesia che abita «in un luogo tremendo e solitario, dove nessuno/ resta intatto». Poesia come “strumento di indagine” che ricerca i fondamenti del mondo, e, dall’esperienza, dalla percezione, estrae precisi significati, rischiara «l’ora solitaria». Poesia come «voce del tempo, la voce del tempo e del distacco/ che si ripete in ogni tempo». Poesia come “atto unico”, come parola insostituibile. Poesia di Milo De Angelis (nella foto di Viviana Nicodemo) che, come dentro un tempo millimetrico, «misurato mille volte», eppure ignoto, abbiamo udito destinando, qualche domanda (anche) al suo libro “Linea intera, linea spezzata”, (Lo Specchio Mondadori).

Cosa può (cosa ha potuto) la poesia contro la “serietà della morte”, contro “i nostri pochissimi anni nell’occulto che ci chiama”, con la diffusa incapacità d’ascolto?

Alla serietà della morte si accompagna la serietà della poesia. Sono amiche inseparabili, vanno in giro per la città, entrano negli stessi negozi, negli stessi bar, negli stessi cinema. Progettano di vivere insieme. A una condizione, che è quella di essere serie, appunto. La morte lo è per sua natura. La poesia può diventarlo per volontà, stile, esercizio, dedizione. La morte accetta solo poeti seri. Niente ironia, freddure, giochi di parole, acutezze, esperimenti. Niente di tutto questo. Soltanto una presenza antica e rituale che ogni volta nobilita la morte con l’invenzione della propria lingua, con il genio delle proprie immagini e con l’ombra dei propri simboli, capaci di scendere insieme nell’occulto che ci chiama, di affrontare insieme il brivido dell’ultimo viaggio.

La poesia (nel suo farsi continuo) è l’eterna riabilitazione?
Il termine “riabilitazione” fa pensare che il poeta sia disabile. In un certo senso è proprio così. Il poeta – come l’albatro di Baudelaire – è spesso un uomo con dei blocchi essenziali che non gli consentono di aderire spontaneamente alla vita. Deve arrivarci, alla vita, ed è un lungo tirocinio, un lungo addestramento, un paziente apprendistato che gli consentirà di raggiungerla, quella creatura fuggitiva, quella benedetta sorgente da cui tutti noi proveniamo. E allora sì, possiamo dire che la poesia è un magnifico strumento per acquisire l’abilità di vivere, per diventare abili alla vita.

La sua poesia è (anche) la lingua del ricordo, del silenzio, dell’altrove, dell’invisibile. In che modo la (sua) vita diventa linguaggio?

Il ricordo, il silenzio, l’altrove e l’invisibile sono termini che mi appartengono. Il ricordo passa attraverso Petrarca e Leopardi, il silenzio attraverso le Upanishad, l’invisibile attraverso il Romanticismo e tutti e tre confluiscono nell’altrove, parola chiave che ha investito la mia vita da cima a fondo. Negli anni Settanta – quando si diceva tutti i giorni che la poesia doveva stare al passo con i tempi, doveva essere per forza “qui e ora” – io sentivo di essere “né qui né ora” e che avrei dovuto fare uno strenuo esercizio per aderire alla realtà attraverso la parola, per tornare all’esistenza dopo avere abitato un altrove impervio e muto.

Qual è o quale dovrebbe essere la lingua ideale della poesia? E, ancora, la forma quanto incide sull’essenzialità e sull’espressività della parola poetica?

Nel De vulgari eloquentia Dante si dichiara insoddisfatto sia del volgare – naturale ma non universale – sia del latino, universale ma privo di naturalezza. E così insegue il sogno di una lingua “ideale”, una lingua edenica che abbia entrambe queste virtù, perdendosi nelle chimere della sua immaginazione. Ecco, la poesia nella sua forma più alta dovrebbe idealmente avere la forza immediata e dirompente della parola diretta e insieme la forza assoluta della parola mitica. E il poeta – attraverso un’estenuante ricerca formale, ossia attraverso tutti gli strumenti retorici a lui consentiti – si propone di giungere a quell’essenziale espressivo a cui di cui lei ha parlato.

Immagini di dover dare ai più giovani delle “istruzioni” sostanziali per scrivere una poesia, quali darebbe?

“Istruzione” è una bella parola e possiede una bella etimologia. Viene dal verbo latino instruere, che significa molte cose: preparare, costruire, connettere le parti tra di loro, collocare nella giusta posizione. In fondo la poesia è tutto questo e chi si accinge a scriverla deve avere in mente l’insieme della costruzione e il legame tra i suoi elementi, deve avere lo sguardo ampio del sapiente e la precisione manuale del muratore che mette ogni mattone al suo posto. Perché questo avvenga occorre leggere, leggere e poi ancora leggere. Non solo i classici ma anche i poeti di oggi. Mi sembra naturale: se entriamo in una nuova città, dobbiamo conoscere i suoi abitanti, studiare la lingua che parlano, entrare nel loro animo con attenzione e delicatezza. Allo stesso modo, inoltrandoci nella città della poesia, è necessario leggere le pagine dei suoi poeti, che sono le fondamenta di questa città.

La poesia è tale se diventa portatrice di una visione sovraindividuale?

Sovraindividuale, sottoindividuale, extraindividuale: la poesia chiama a sé tutte le preposizioni che allargano la nostra sfera privata e la dilatano all’esterno oppure la fanno precipitare in basso, nel sottosuolo della psiche, oppure la conducono in alto, nel regno degli astri e delle costellazioni. Non c’è dubbio: la poesia perde il suo nome e la sua verità quando si riduce al diario di una storia personale, all’hic et nunc di una proprietà privata.

Qual è stato, ad oggi, il dono più prezioso ricevuto in dono dalla poesia?

Nel vasto buio della nostra grotta la poesia accende delle piccole torce. Ogni poesia riuscita è una fiammella che percorre l’oscurità, giunge fino a noi, rischiara le tenebre da cui siamo avvolti, ci permette di leggere qualche parola del nostro alfabeto, decifrare un frammento del segreto che ci ospita. Questo ripete, alla fine della sua avventura nell’Ade, l’Orfeo di Cesare Pavese: “ho cercato me stesso…non si cerca nient’altro”.

Per concludere salutando i nostri lettori, la invito a scegliere una sua poesia dal libro “Linea intera, linea spezzata” – (le chiedo gentilmente di riportala) – e, nel contempo, la invito a portarci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.

In questo mio libro ci sono poesie decisamente liriche, soprattutto nelle prime due sezioni: difficile tracciare una storia o individuare un filo narrativo. Invece nella terza sezione, intitolata Dialoghi con le ore contate, alcuni testi sono una sorta di racconto in versi, con una scena (quasi sempre cittadina) e con dei personaggi. Vorrei presentare qui la poesia intitolata A.D.E. dove si delinea l’incontro con mio fratello Giulio (chiamato Puia) in un garage sotterraneo della periferia milanese. Puia è una curiosa creatura che ha scelto in modo radicale di restare fedele all’infanzia e alla sua grande passione per il calcio in generale e per il Milan in particolare. È un collezionista di figurine, dischetti, almanacchi sportivi, foto dei giocatori preferiti, un autentico museo di magliette rossonere e cimeli calcistici, raccolti pazientemente nel corso degli anni. Una notte ho sognato di scendere con la mia vecchia Fiat Uno lungo le rampe di un garage che si chiamava A.D.E. – abbreviazione del proprietario Antonio Degli Esposti – e che sprofondava sempre di più, curva dopo curva, fino a sembrare un vero e proprio oltretomba. Alla fine di questa discesa trovo Puia, circondato di coppe e trofei, e iniziamo un dialogo sulla nostra squadra del cuore, come quando eravamo bambini. Da questo sogno nasce la poesia qui presente, che era molto più lunga nella prima stesura e che ho abbreviato nelle varie stesure per mantenere viva la tensione e la forza concentrata delle immagini.

A.D.E.

“Strano nome per un garage”, mi dico, e intanto scendo,
metto la prima, le curve sono strette e poco illuminate.
Scendo con questa Uno malandata, scendo
lentamente nell’oscuro e adesso fa freddo e sempre più buio,
metto gli abbaglianti e scendo
fino a un vasto piazzale deserto con due o tre auto
di un altro tempo, una Milleotto e una Simca, ed entro
in una stagione remota eppure nostra, tra i corpi
del dopoguerra, e allora scendo, scendo di più,
scendo fino in fondo, scendo ancora
e finalmente lo vedo, mio fratello Puia, mentre sfoglia
un almanacco di calcio illustrato ed entra nella sua stanza
piena di gagliardetti, trofei e fotografie con la dedica
di antichi giocatori. “Guarda, qui c’è Liedholm, gran signore…”.
“L’hai conosciuto di persona?”. “Sì, sono andato a trovarlo
in Monferrato e mi regalò due bottiglie del suo vino:
è stato il giorno più bello della mia vita”. “E poi?”.
“E poi c’è Schiaffino, detto Pepe, che giocava sul campo
ma osservava la partita dall’alto di una torre”.
“Oh Puia, che gioia vederti sorridere!”
“Sì, fratellino, sorrido: questo è stato il mio tempo,
un tempo di dischetti e figurine, e qui resterò per sempre”.

da Linea intera, linea spezzata, Mondadori 2021

 

(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 01.05.2022 pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).

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