Vito M. Bonito, «oltre/ la striminzita misura umana», e intorno al “Di non sapere infine a memoria”.

Bisogna «andare oltre/ la striminzita misura umana», oltre il «materialismo militante», oltre «l’annientamento degli uomini», oltre «un’impronta di resa». È parte di quanto cogliamo dal sottile “racconto” di Vito M. Bonito (nella foto di Dino Ignani), leggendo “Di non sapere infine a memoria (1978 – 1980)”, edito da “L’arcolaio”, nella collana “Il laboratorio”, diretta da Luciano Neri. Il poeta, incrociando fatti, interrogativi, enigmi, ipotesi, visioni, desideri, rischiara uno spaccato di storia intonandolo al “dualismo vittima/carnefice del genere tragedia” in cui, “ogni possibilità di io/tu viene orientata alle sue estreme conseguenze”.

Qual è stata la più intima scintilla che ha portato il tuo “Di non sapere infine a memoria”?

C’è un dolore mai sopito all’origine di questo libro. Un dolore che ha lavorato per circa 40 anni. Non saprei dire quale tipo di dolore e quale la sua causa. Posso immaginare che non sia uno solo o di una specie sola. Ci sono io tra i 15 e i 17 anni, c’è la politica, c’è il sangue e i morti che negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso abbiamo visto spargere ovunque in Italia e non solo. C’è anche un impulso creativo legato alla mia vita di quegli anni. Tutto questo ha lavorato in modo sordo ma costante fino a circa 10 anni fa, quando ha iniziato a prendere forma questo libro uscito poi all’inizio del 2021. Il libro è una ‘tardiva’ resa dei conti con me stesso, quegli anni e la possibilità di scrivere un libro estraneo persino a me stesso o all’idea che ho di me stesso (se così si può dire). Pur parlando di una stagione tragica e annegata nel falso ideologico, il libro è per certi versi comico, o meglio hilarotragico. La difficoltà è stata togliere il peso delle parole ovvie e inoltrarsi nel delirio del linguaggio balordamente ‘mistico’ di quei decenni e dei comunicati di morte che fiorivano, in ogni stagione, dal sangue e nel sangue. Ma come rendere ‘lieve’ il delirio di quella lingua? Come rendere quella lingua ancora più cieca e intransitabile di quanto già non fosse? Avevo già scritto un libro da cui questo può discendere: Soffiati via (2015). In qualche modo sono partito da lì. Solo partito. Senza sapere dove andare però. Attraverso la morte altrui, c’è anche la mia morte in di non sapere infine a memoria. C’è paradossalmente un elemento ludico della scrittura che ancora mi tiene e mi fa scrivere senza più ritegno, senza più ‘dignità’. Un gioco al massacro si potrebbe dire, se non fosse che prendersi sul serio in poesia, in letteratura, in vita e in morte, è cosa assai disdicevole e trista.

In che modo la vita diventa linguaggio?

La vita diventa linguaggio quando sposti la vita Altrove. Il linguaggio deve configurare mondi altri, deve inoltrarci là dove non pensavano di poter andare. Soprattutto la lingua non deve morire nel mondo reale, nella lingua del mondo reale. Sempre che il reale esista. La questione è fino a che punto siamo in grado di desaturare il linguaggio, la parola, l’immagine.

La poesia è (anche) la lingua dell’invalicabile?

Sì. La poesia è l’intransitabile, se si pretende di essere in grado di comprendere tutto o quasi. C’è un margine in ogni cosa che non è possibile toccare. Attraversare. Forse è proprio il fallimento della lingua. La poesia è anche un punto di non ritorno. Ma per arrivarci c’è bisogno di un atto di sottomissione. Magari giocoso, irridente persino, ma atto di sottomissione deve essere. Bisogna farsi ciechi e sordi. La postura della cecità e della sordità si incrocia con la parola storpiata, producendo così un corpo sconosciuto, una logica della sensazione in cui noi cadiamo estaticamente fuori di noi. Bisognerebbe stare sempre fuori dal visivo e dal parlato. Le mani devono vedere ascoltare e dire. Così si finge per raggiungere l’impensato, l’intangibile di una verità fuori di sé. La poesia, l’arte sono allora davvero una «fata morgana», che cattura «cose che non sono reali, che non si trovano lì» (Werner Herzog).

La forma quanto incide sulla “verità” della parola poetica?

Incide totalmente se per «“verità” della parola poetica» intendiamo l’effetto di verità, e non di realtà. Se intendiamo, come vuole Werner Herzog, la «verità estatica» e non la verità estetica. La verità non indica nulla. La verità è vera solo nell’esporsi, nell’offrirsi fuori di sé conficcata nella forma del proprio rivelarsi. La verità rivela solo quando si rivela, e pertanto può essere in sé solo a patto di essere fuori di sé. La verità è sempre a fior di pelle. O a “fuor” di pelle. È proprio in questo viaggiare dentro l’alterità più disturbata e irraggiungibile che si colloca la Gegenbild, se così si può dire in allusione celaniana, della poesia. Tutto deve essere contromano. Si viaggia dentro una ferita sensoriale, un’apnea percettiva: è questo che dischiude la lingua al mondo, all’esistente, proprio quando accetta l’irreparabile della finzione suprema come unica possibilità di accesso al vero – là dove l’immagine si fa controimmagine.
La verità è fuori da sé.
La verità – è fuori di sé.

Si può accedere alla «verità estatica» per sincope o attesa, arresto o dilatazione. Ciò che importa è portare il nostro “visibile parlare” sui margini del proprio estremo compimento, della catastrofe, del proprio fallimento: e lì restare per il tempo necessario e poi cadere – svanire. La poesia sono favole senza speranza. Favole velenose, in cui tutte le cose affondano. E ridono. Bisogna doppiare i fantasmi. Mediante altri fantasmi, la poesia trasporta l’esperienza là dove solo la potenza del falso la intensifica, e intensifica la verità solo quando riesce a concepire cose che non sono o non sono ancora. Ombre come cose salde, per stare ancora nel solco dantesco. Senza queste falbe sembianze, senza questi simulacri, ogni vago barlume di verità viene di colpo cancellato. Non ci sono verifiche ‘sperimentali’ da fare. La verità della poesia è un futuro handicappato.

Immagina di dover dare delle “istruzioni” essenziali per scrivere una poesia, quali daresti?

Non so. Davvero. È un lavoro lungo – di ascolto innanzitutto.
Bisogna imparare ad ascoltare e poi a dire. O a dire per ascoltare.

Posso dirla così:

Perché il vento è cieco?
Perché il vento è cieco?
Perché non so morire?

Cosa può la poesia? E cosa può “contro” la “striminzita misura umana”, il “materialismo militante”, i “giganti immaginari”, “l’annientamento degli uomini”?

Credo poco. Se prendiamo giustamente sul serio queste parole. La poesia sta dentro la striminzita misura umana, forse ne è la più alta rappresentazione. Il dramma è quando qualcuno crede che tale striminzito gesto, la poesia, abbia debba avere un qualsiasi valore. La poesia, l’arte in genere, agisce proprio quando non pretende di agire. Quando ci rende spaesati, fuori luogo, fuori fuoco. Il volontarismo non va da nessuna parte, vuole solo mettere a fuoco il millimetro che è in grado di vedere e presuntuosamente dominare. Se non cogliamo la musica dell’abbandono, in cui peraltro siamo stati abbandonati, siamo abbandonati, ci siamo abbandonati, nulla possiamo. La poesia, l’arte indicano – non dicono. Solo allora possono spostarci dal millimetro in cui siamo soliti vivere e guardare al mondo.

Qual è stato, ad oggi, il dono più prezioso ricevuto in dono dalla poesia?

A me la poesia ha donato l’inudibile. Davvero l’altro mondo. «L’arte di esistere contro i fatti», se vogliamo parafrasare Thomas Bernhard e le pagine bellissime che Aldo Giorgio Gargani gli dedica.
Non credo la poesia abbia ricevuto alcun dono da me, (la domanda è sottile, nella sua doppiezza).

Riporteresti una poesia o uno stralcio di testo (di altri autori) nel quale all’occorrenza ami rifugiarti?

Mi rifugerei nel canto 31 del Paradiso dantesco o nella poesia di Celan, o ancora nella nenia pascoliana (vero e totale amnio di una lingua madre, acustica totale di una cantilena ininterrotta). Il rifugio più profondo per me resta Alifib di Robert Wyatt (è una canzone da Rock Bottom, 1974), uno dei più grandi musicisti del secolo scorso e non solo. E un altro pezzo, questo di Joni Michell – Both Sides Now nella versione orchestrata del 2000. Tuttavia porto con me, per ragioni legate a mia madre, due testi di Montale:

uno da Satura

Avevamo studiato per l’aldilà un fischio,
un segno di riconoscimento.
Mi provo a modularlo nella speranza
che tutti siamo già morti senza saperlo.

L’altro da Quaderno di quattro anni:

In negativo

È strano.
Sono stati sparati colpi a raffica
su di noi e il ventaglio non mi ha colpito.
Tuttavia avrò presto il benservito
forse in carta da bollo da presentare
chissà a quale burocrate; ed è probabile
che non occorra altro. Il peggio è già passato.
Ora sono superflui i documenti, ora
è superfluo anche il meglio. Non c’è stato
nulla, assolutamente nulla dietro di noi,
e nulla abbiamo disperatamente amato più di quel nulla.

 

Per concludere salutando i nostri lettori, ti invito a scegliere una tua poesia dal tuo libro “di non sapere infine a memoria” – (riportala gentilmente) – e, nel contempo, ti invito a portarci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.

A tal proposito vorrei riportare quanto uscito proprio su l’EstroVerso circa un anno fa:

16 marzo 1978: a Roma, le Brigate Rosse rapiscono Aldo Moro – uccidendo gli uomini della sua scorta; 9 maggio 1978: Moro viene giustiziato dalle Brigate Rosse; avevo 15 anni.

28 maggio 1980: a Milano Walter Tobagi viene ucciso dalla Brigata XXVIII marzo; avevo 17 anni.

Prima e dopo altri furono assassinati – ma non so dire perché la mia memoria torna di continuo a questi due eventi, come una brace, un filo a piombo sul sangue.

I salti di memoria, le fratture temporali, le inesattezze sono volute – questo libro non vuole ricostruire niente – non sa, né potrebbe farlo; all’oscuro com’è anche di se stesso.

di non sapere infine a memoria (1978-1980) attraversa 7-8 anni di studio e scrittura. Nel dissesto della memoria di un adolescente che allora ‘faceva’ politica, si sono inserite letture non più casuali, non solo documentarie e testimoniali. Né esclusivamente saggistiche. Nei buchi della memoria si sono ricomposte voci vive e morte di allora e di adesso, voci di poeti che mi venivano incontro a tenere a freno la lingua, ogni possibile dizione ‘poetica’ (sia chiaro, a scanso di equivoci, anche l’insignificanza della prosetta in prosetta; o della poesia finto poesia che finge qualcosa che non sa; o le contumelie rococò di una qualsiasi scrittura che si presume ‘di ricerca’).
Il libro è organizzato secondo una scansione pseudo-tragica. Pseudo dal momento che ci sono all’interno dei ‘fuoriposto’, degli inserti grotteschi, talvolta comici (se così possiamo dire), indisciplinati verso una possibile forma del testo.
Nella partitura del libro, le figure si inseguono in coro, si alternano e si sovrappongono ma quasi assentandosi l’una dall’altra. Chi parla è conficcato nella propria fine. Gli unici spettatori, forse, di questa fuga di voci sono Stalin e Mao che, morti, guardano la televisione e assistono (stupefatti, compiaciuti, luminosamente retrogradi) al delirio storico, politico e ideologico da loro stessi innescato.
Dentro il bagno di sangue che furono i cosiddetti ‘anni di piombo’, galleggiano uomini e donne, vittime e carnefici, figlie e figli che furono toccati, feriti, esplosi. Compresa ogni forma di memoria che sebbene tenuta in vita si dirada pur di sopravvivere a se stessa.
di non sapere infine a memoria (1978-1980) si è costruito così, senza una ragione esterna, senza una decisione volontaristica di intervenire, di dire ‘qualcosa’ su quei tempi. È un soprassalto di fantasmi che mi abitano, fantasma io stesso, non so perché.
È il libro di chi non sa pensare, non è in grado di pensare cosa sia stato vivere in prima persona quei terribili eventi. Cosa è stato uccidere, cosa morire – cosa essere sopravvissuti a tanto orrore.
A un eventuale lettore potrei dire che il libro inizia con un canto dei bambini monocellulari (quasi parola amniotica di chi poi prenderà in mano le armi per una rivoluzione mai avvenuta e di fatto negata proprio da chi le armi le indossò) e si chiude con uno stasimo fuoriposto (le figlie, i figli, anche di pochi anni, che videro spazzate via nel sangue le vite dei loro padri). All’interno di queste due sezioni, le vicende tra il 1978 e il 1980 – trasfigurate, balbettanti, insensate quasi.

Il testo che propongo è la sequenza finale:

 

stasimo
(canto fuoriposto)

I

come faccio a dirti come sono?
come faccio le parole?

seduta qui tra sedie vuote
come faccio a togliermi
questo vento dagli occhi?

tu alla mia età
alle sedie vuote ci parlavi?

II

l’aria il vento l’aria      il vento il vento

l’aria il vento               l’aria

l’oro il sangue              il sangue

le rose                          le anime esplose

III

ho cinquant’anni papà
porto gli occhiali anch’io

spesso li tolgo
per vedere i morti         iddio

ma comincio a pensare
che non basta non vedere
per vederli

forse non basta
neppure morire

IV

non ci sei mai
sulla giostra con me…

e i morti a ogni giro
fanno domande
sempre più assurde…

V

ma non è così che moriamo
disse la figlia la spada afferrando

miliardi
di anni luce mi vedi?

sono arrivate le api
che poi ci siete tutti
come lanterne

che diventate bambini
disperati ancora
ma a casa
                  infine

VI

nel fuoco dei capelli
nessuno da perdonare

prendimi in braccio       papà

non ce la faccio             più

da sola a                        bruciare

 

Qui volendo scendere nell’origine della sequenza posso dire che tutto è nato dalla proiezione che ogni genitore fa, credo, sulla propria scomparsa e su cosa accade a chi resta, nello specifico a una figlia o a un figlio. D’altronde chi scrive è stato anche figlio. E ha fatto improvvisamente l’esperienza del lutto, come perdita dell’orizzonte e del senso e come esperienza di una qualche forma di ‘preghiera’, di una qualche possibilità di dire al nulla, al niente, a nessuno. Alcuni di questi testi erano già scritti a prescindere dal libro, magari in altra forma. È una figlia che si rivolge al padre morto da non si sa più quanto tempo. Ma il tempo non sembra essere passato da quella data in cui la bimba era molto piccola e ha visto morire il padre. Nella stesura per il libro, il mio pensiero è andato alla figlia di Walter Tobagi. Ma ovviamente si è incrociato con l’immagine di mia figlia allora treenne. È dunque la voce di una bimba che parla, che abbia tre o cinquant’anni non conta. La morte di qualcuno ci conficca in uno spazio-tempo ineludibile. In una sorta di presente immobile, in cui eternamente si ripete la scena, in cui eternamente noi ci muoviamo senza spostarci di un millimetro. Questo è quanto. Sono cose che avrei detto io quando mia madre è morta; e ora che è morta da 40 anni ormai non posso che ripeterle così. Non importa il ‘chi’, in questi versi. Volevo arrivare al cosa, o forse al dove. Dove siamo, dove non siamo. Dove non siamo arrivati, dove siamo morti senza saperlo. Quando non è fondamentale. Quando è già accaduto, da sempre.

 

(la versione ridotta di questa intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del 20.02.2022 pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).

 

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