“Nel concerto del tempo” di Marco Pelliccioli, “la poesia è connaturata alla nostra condizione”.

Il nostro muoversi incerti, modellando le giornate, seminando radici, in controluce, verso quell’essere «un’unica materia». Tra oggetti, figure e suoni che accendono ore scomposte, scale che «ci precipitano addosso/ (migrazioni/ fuori tempo massimo)», l’accettazione – «a volte, si muore» – dentro le bizze di un tempo indocile, il coraggio che s’irradia, «disegna con amore un inno/ alla vita lungo la salita», dentro «il ciclo della vita,/ splendido e crudele, fragile ed eterno». Parliamo della raccolta “Nel concerto del tempo” di Marco Pelliccioli (Lo Specchio, Mondadori). Una storia (sotto «Zolle di cielo») che, tra incanto e cemento, soccorre Camus in esergo, “riguarda tutti”.

Qual è stata la scintilla che ha portato il tuo “Nel concerto del tempo”, meglio: in che modo la (tua) vita diventa linguaggio?
«Come ha scritto bene qualcuno, la mia poesia nasce da un attrito fisico e concreto con la realtà, nasce per la strada, da situazioni di vario tipo che irrompono nella mia quotidianità dando vita a un dettato interiore.
Questo può accadere con personaggi reali di cui conosco o immagino le sorti; con creature animali e vegetali che svelano qualcosa che riguarda la nostra comune condizione; con situazioni oniriche la cui opacità suggerisce qualcosa che ci apparitene; con avvenimenti storici che coniugano vicende comuni a una più ampia dimensione collettiva.
Attraverso questi movimenti prende vita un dettato, una musica su cui atterrano le parole con una lingua (e un linguaggio) che risponde alle esigenze specifiche del testo, alternando prosa e verso, accensioni liriche e registri ironici, meditazioni narrative e visioni surreali. La complessità del reale determina, di volta in volta, una soluzione precisa che non può essere altrimenti, pur rispondendo a un’armonia sotterranea che lega l’intero libro, come un motivo musicale che, nel corso di un concerto, vive diverse fasi, momenti, accensioni e distensioni, per poi riemergere…».

Ad oggi, “dove” sei stato condotto dalla poesia, qual è stato l’insegnamento? Forse, rifiorire, come “la bianca magnolia”?
«Non so dire se e cosa possa insegnare la poesia. Quello che credo è che la letteratura possa interrogarsi sulla condizione dell’uomo nell’epoca in cui vive, sollecitando orizzonti conoscitivi di varia natura ad ampio raggio, indagando la complessità del reale. Ciascun autore, poi, come dice la radice stessa della parola (augere, aumentare) può aumentare una certa consapevolezza del lettore attraverso la propria opera. Questo può avvenire in vario modo secondo la visione peculiare del poeta. Io ho sempre apprezzato quei maestri che, in fin dei conti, hanno dimostrato una profonda adesione alla vita. Quando si parla del “vuoto”, del “nulla” di Sereni e ci si dimentica un verso come “ma più conta che la gente cammini in allegria”, o “passiamola questa soglia una volta di più”, credo si perda l’essenza, l’orizzonte ultimo del suo sguardo. “La bianca magnolia” che citi, come “Lo storpio”, o come la poesia che apre il capitolo “Nell’aria leggera”, credo appartengano a questa dimensione, al sentimento dell’esserci qui e ora nonostante tutto».

Le parole (“che scivolano”) bastano alla poesia, la poesia è un destino?
«Chi può dirlo… Non so bene cosa sia la poesia eppure riguarda l’uomo dai suoi albori, lo accompagna dai tempi antichi dimostrando come, evidentemente, sia qualcosa di connaturato alla nostra condizione. Sono trascorsi secoli, epoche storiche completamente diverse, mutamenti forse persino inimmaginabili, eppure, nonostante tutto, ancora oggi l’uomo ricorre a questa forma d’arte per interrogarsi sul proprio esserci e stare al mondo. Persino in un’epoca ipertecnologica come la nostra, temi come l’amore o la morte appaiono così insondabili per la scienza… Mentre l’intelligenza artificiale avanza, l’essere umano ricorre ancora alla parola per porsi delle domande, sollecitare temi, questioni, interrogativi che probabilmente riguardano, quale che sia, il nostro destino. Ci si chiede il motivo e non si trova una risposta. E forse chissà, è proprio la domanda in sé a contenere la questione più importante…».

Per concludere, ti invito, per salutare i nostri lettori, a riportare tre poesie dal tuo libro; e di queste scegline una per condurci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere (nel contesto del libro che l’accoglie).

 

LO STORPIO

In sella al suo triciclo rosso
pedalava contro la tempesta
avvolto nella giacca a vento
le gambe attorcigliate
               a spingere i pedali.

Chi si affacciava non capiva
la sua corsa solitaria
ma la pioggia scrosciava,
evaporava, sulla faccia
di lui che non fugge davanti al suo dolore
ma disegna con amore un inno
alla vita lungo la salita.

*

E andiamo così,
tu avanti, io dietro,
nell’aria leggera
              che scorre sul Lambro
e, forse, chissà, domani già io
sarò lì davanti, e dietro poi tu
              a tenermi per mano

ma adesso che batte
questo poco di sole
e l’aria d’inverno
sembra di primavera, corriamo
al mio tre
              insieme nel prato.

 

IL MALE COMUNE

Questi bidoni sul Lambro
la sera, all’ombra di nuove
vetrine allestite, mi dicono ancora
il male di chi
è rimasto a vuotarli
             in riva all’estate.

E penso che, forse,
potrei essere io
uno di loro
oppure anche tu, che ti volti
distratto connesso annoiato
              qui al tavolo accanto

ma in questa distanza,
amico mio caro,
non siamo lontani:

il male è un male
comune, il bene
una luna d’agosto
             o quel che ne resta.

Vi racconterei come è nata Lo storpio.
Diversi anni fa, ogni mattina percorrevo una strada provinciale e vedevo venire, in direzione opposta alla mia, un uomo in sella a un grande triciclo rosso. Ogni giorno, lo vedevo compiere il medesimo percorso provocando dentro di me e, immagino, dentro ciascuno, un sussulto, un moto interiore. Finché un mattino lo vidi pedalare sotto un violento temporale. Così feci inversione con la macchina, mi avvicinai e chiesi se volesse un passaggio. E lui mi rispose: “Se vuoi aiutarmi, lasciami andare avanti da solo”. E proseguì, sotto la tempesta, lungo la salita.

Questo è un esempio di come la quotidianità possa irrompere dentro di me e costringermi a scrivere per dare voce a questi personaggi anonimi che con i loro gesti, minimi eppure vitali, sanno ancora testimoniare un’umanità profonda. Devo l’enjambement dell’ultimo verso al mio maestro che mi propose, giustamente, di tagliare il verso prima.

 

Inizialmente la poesia finiva in questo modo

ma disegna con amore
un inno alla vita lungo la salita.

ora finisce così

ma disegna con amore un inno
alla vita lungo la salita.

 

Questo enjambement mi è sembrato subito molto più efficace, valorizza al meglio la rima e il nesso semantico tra “vita” e “salita” che, in fin dei conti, racchiude il senso profondo del testo.

(la versione ridotta di questa recensione-intervista a cura di Grazia Calanna, è apparsa sul quotidiano LA SICILIA del giorno 06.04.2025, pagina Cultura, rubrica “Ridenti e Fuggitivi”).

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