rubrica l’étranger
In Italia molti studiosi, filologi e poeti si sono appassionati a tradurre i versi di Costantino Kavafis (29 aprile 1863 – 29 aprile 1933). Tra i più noti, va ricordato il grecista F.M. Pontani – «il prestigiatore» così definito da G. Seferis per ringraziare colui che l’aveva tradotto –, il primo a presentare integralmente l’opera del poeta alessandrino (Poesie, Mondadori, 1961; Due prose su Shakespeare, Scheiwiller, 1966; Poesie nascoste, Mondadori, 1974). Abbiamo poi la versione di Nelo Risi e Margherita Dalmàti pubblicata nel 1968 da Einaudi, l’allora edizione delle Cinquantacinque poesie. Degli anni successivi sono le Poesie erotiche (1983) e le Poesie segrete (1985) nella traduzione ed edizione di Nicola Crocetti. Scopriamo ancora, sempre in ordine cronologico, una bella versione di Guido Ceronetti (Un’ombra fuggitiva di piacere, Adelphi, 2004). Ci limitiamo per ora a questi esempi di rilievo – la bibliografia contempla palesemente una lista più lunga e bisogna segnalare che diverse furono le versioni apparse su riviste prima ancora di apparire in volume – per dimostrare come l’attenzione e la cura nel tradurre Kavafis siano rimaste vive e costanti. Si noti a tal proposito la versione Risi-Dalmàti nell’edizione ampliata del 1992, divenendo Settantacinque poesie, quella di Ceronetti accresciuta con altre sette poesie per la ristampa del 2009, e da circa un anno con traduzione e cura di N. Crocetti la pubblicazione de Le poesie (Einaudi, 2015), consistente nel canone dei 154 testi più una scelta di altri 46 tratti dalle Poesie nascoste e dalle Poesie rifiutate raccolte da G. Savvidis.
È chiaro che la poesia di Kavafis non ha mai cessato di esercitare il suo fascino tanto sull’esperto quanto sul lettore non specialista. I motivi, oltre a quelli eminentemente linguistici e filologici, vanno ricercati in una visione che pone l’uomo al centro di una storia collettiva e personale con le sue tensioni e le sue pulsioni. Un certo mondo poetico costituito solo da alcuni temi – il passato ellenico e l’anelito erotico-sensuale – «la cui trattazione fu notevolmente varia» (D. Mendelsohn). Riconosciamo una galleria di volti recuperati dalla storia greca, romana e bizantina, riproposti da un’angolazione emblematica ma meno gloriosa al fine di «abolire il giudizio secondo la prospettiva storica che da secoli ci è ormai familiare» (Risi), di figure minime, anonime, evocate nelle loro miserie e debolezze, «umili comparse di una storia minuscola e dimenticata» (Crocetti). Kavafis aveva una particolare predilezione nel delineare il risvolto etico e psicologico dei suoi personaggi, egli «sembra pago della rappresentazione di conflitti esistenziali, e se talora l’episodio narrato o drammatizzato può celare un giudizio, lontana da ogni vieta retorica è sempre la risonanza esemplare della vicenda, persino su un esplicito piano etico-didascalico» (Pontani); l’episodio cucito ad arte fa percepire al lettore un senso di fatalità e inesorabilità intorno alla figura richiamata. Si è citato il desiderio erotico, l’omoerotismo «che palpita nel segreto» perché «la vita della carne, con tutta la sua dinamica irregolare e tenace, è veramente il fulcro della vita e dell’opera del poeta […] la vita dei sensi che divampa nei contatti più occasionali» (Pontani), quindi una sensualità densa di attrazioni fugaci, talvolta inappagati, di passioni della durata di un giorno o di un’ora vissute in un café, in un negozio o in una camera, spesso rievocati con nostalgia. Nelle pieghe dei testi incontriamo il poeta edonista, esteta, scettico, anzi «religiosamente scettico» (Ceronetti) con una filosofia improntata al realismo e alla disillusione. Sopra tutto ciò lo scorrere del tempo, che ci permette di catturare attraverso l’acuto scandaglio dell’osservatore un’epifania di quanto è andato perduto, descritta con concisione e purezza di stile.
Seamus Heaney ha reso bene il senso, nella prefazione all’edizione inglese del canone (C.P. Cafavy, The Canon, translation by S. Haviaras, foreword by S. Heaney, Hermes Publishing, 2004), nell’immaginarsi il poeta alessandrino mutare la celebre apologia di Wilfred Owen «the poetry is in the pity» (“la poesia è nella pietà”) per definire la propria poetica, modificandola in «the poetry is in the plotting» (“la poesia è nella trama”); trama – senza dubbio uno dei termini più idonei per spiegare la commistione degli argomenti. È risaputa la suddivisione delle poesie, operata da Kavafis, in «filosofiche», «storiche» ed «erotiche», suddivisione a quanto pare non del tutto significativa sia perché «non pochi testi sono riconducibili all’una o all’altra categoria» (Crocetti), sia perché a un livello più profondo formano un tessuto omogeneo dal punto di vista storico-narrativo, filosofico e poetico: l’intreccio è il medium capace di legare in una sostanza viva e ardente gli interessi artistici del poeta.
In sostanza il mondo di Kavafis è ricco «perché affonda nell’umano, il suo pensiero ci appassiona perché è dialettico, il suo verso ci affascina perché è sempre in tensione, il suo stile è moderno proprio perché è classicamente definito e tecnicamente ellittico» (Risi).
È l’umanità, resa dal poeta, nel suo successo, nel suo fallimento, nello scacco vissuto nel presente, nell’attento ascolto della memoria, un’umanità la cui fissità conta più che il suo divenire.
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Quattro poesie di Costantino Kavafis, tratte dalle edizioni citate nell’articolo
Monotonia
Segue a un giorno monotono un nuovo
giorno, monotono, immutabile. Accadranno
le stesse cose, accadranno di nuovo.
Tutti i momenti uguali vengono, se ne vanno.
Un mese passa e un altro mese accompagna.
Ciò che viene s’immagina senza calcoli strani:
è l’ieri, con la nota noia stagna.
E il domani non sembra più domani.
(trad. Filippo Maria Pontani, Mondadori, rist. 1991)
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Le finestre
In queste buie stanze dove passo
giornate soffocanti, io brancolo
in cerca di finestre. – Una se ne aprisse,
a mia consolazione –. Ma non ci sono finestre
o sarò io che non le so trovare.
Meglio così, forse. Può darsi
che la luce mi porti altro tormento.
E poi chissà quante mai cose nuove ci rivelerebbero.
(trad. Nelo Risi e Margherita Dalmàti, Einaudi, rist. 1992)
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Torna
Torna, prendimi spesso, amato spasimo,
Torna quando del corpo la memoria
Si ralluma, in quegli istanti prendimi:
Quando riagita il sangue le remote
Sue voglie e a labbra e carne si agglutìnano
I ricordi, e sulle mani ancora
La sensazione del toccare infuria.
Torna più volte, prendimi di notte,
Tutta la carne nel ricordo tendimi.
(trad. Guido Ceronetti, Adelphi, rist. 2009)
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Sovrani Alessandrini
Gli Alessandrini si adunarono
per vedere i figli di Cleopatra,
Cesarione e i suoi fratelli minori,
Alessandro e Tolomeo, portati fuori
per la prima volta, al Ginnasio,
per proclamarli re,
tra il fulgido schieramento dei soldati.
Alessandro – fu nominato re
d’Armenia, di Media e dei Parti.
Tolomeo – fu nominato re
di Cilicia, di Siria e di Fenicia.
Cesarione stava più avanti,
abbigliato di seta rosa,
il petto ornato d’un mazzo di giacinti,
una doppia fila di zaffiri e ametiste la cintura,
i calzari legati con nastri bianchi
ricamati con perle color rosa.
Lui ebbe un titolo maggiore dei fratelli,
fu nominato Re dei Re.
Gli Alessandrini sapevano ovviamente
ch’erano solo parole da teatro.
Ma era una giornata calda e poetica,
il cielo d’un azzurro chiaro,
e il Ginnasio di Alessandria
un’opera d’arte superba,
il lusso dei cortigiani eccezionale,
Cesarione tutta grazia e bellezza
(figlio di Cleopatra, sangue dei Làgidi).
Gli Alessandrini correvano alla festa
pieni d’entusiasmo, e acclamavano
in greco, in egiziano, in ebraico alcuni,
affascinati dal delizioso spettacolo –
ma ben conoscendo il valore delle cose,
e che parole vuote erano i titoli regali.
(trad. Nicola Crocetti, Einaudi, 2015)