Nostos, ritorno alla parola
Rubrica a cura di Luca Pizzolitto
da R.M. Rilke, Appunti sulla melodia delle cose (Passigli, 2020)
VIII
L’arte (…) è l’amore più vasto e smisurato. È l’amore di Dio. E non le è concesso fissarsi sul singolo individuo che è solo la soglia della vita. Deve attraversarlo. Non le è concessa stanchezza. Per trovare compimento deve agire laddove tutti sono Uno. E quando essa fa dono di questa unicità, ovunque si posa una ricchezza senza fine.
XVI
Sia il canto sussurrato da una lampada o la voce della tempesta, sia il respiro della sera o il gemito del mare intorno a te, sempre veglia alle tue spalle una vasta melodia intessuta di mille voci, dove da un punto all’altro il tuo assolo trova spazio. Sapere quando fare la tua entrata è il segreto della tua solitudine; come nell’arte del vero reciproco rapporto: dall’altezza delle parole lasciarsi ricadere nell’unanime melodia.
XX
Se non è un grave dolore a gettare su di loro un unanime silenzio, gli uomini ascoltano la potente melodia dello sfondo ciascuno più o meno intensamente. Molti, ormai, non l’avvertono più. Sono come alberi che hanno dimenticato di avere radici e credono ormai che il frusciare dei rami sia la loro vita, la loro forza. Altri non hanno tempo di prestarle ascolto. Non tollerano che un’ora li circondi. Sono, questi, poveri senza-patria che hanno perduto il senso dell’esistenza. Battono incessanti sui tasti del giorno e suonano sempre lo stesso monotono motivo perduto.
XXII
(…) Perché questo avvenga si deve aver riconosciuto entrambi gli elementi della melodia della vita nella loro forma primitiva; cogliere dal fragore di un mare in tempesta il ritmo dell’onda che si frange e sciogliere dal groviglio della rete di parole quotidiane la linea vivente che porta tutte le altre. Si devono tenere l’uno accanto all’altro i colori puri per imparare a conoscere i loro contrasti e le loro affinità. Dimenticare il molteplice per desiderare l’essenziale.
XXXVII
Tutti i loro errori e dissidi derivano dal fatto che gli uomini cercano in se stessi l’unanime concordanza e mai nelle cose che stanno dietro di loro, nella luce, nel paesaggio, nel principio e nella fine. Così facendo perdono se stessi e non ottengono nulla. Si mescolano perché non sono capaci di unirsi. Si sostengono l’un l’altro e tuttavia il loro passo è incerto perché, deboli, entrambi vacillano; e in questa reciproca volontà di sostenersi disperdono tutta la loro forza così da non poter percepire nemmeno l’eco del frangersi di un’onda che giunge da fuori.
XL
E proprio i più soli partecipano più di ogni altro alla comunanza. Ho detto prima che dalla vasta melodia della vita alcuni apprendono di più, altri meno; di conseguenza, nella grande orchestra, a ciascuno spetta un dovere più o meno grande. Colui che percepisse l’intera melodia sarebbe al tempo stesso il più solo e il più partecipe alla comunanza. Sentirebbe ciò che a nessuno è dato sentire e solo perché lui, nella sua compiuta pienezza, comprende quel che gli altri origliano soltanto, nel buio di uno spazio fitto di vuoti.
—
Rainer Maria Rilke nacque a Praga nel 1875 da una modesta famiglia della borghesia impiegatizia dell’impero asburgico, ma amò sempre farsi credere di nobile stirpe e sulla sua tomba spicca uno stemma gentilizio. Avviato alla carriera militare, non resistette ai rigori della disciplina e proseguì gli studi liceali privatamente, iscrivendosi poi all’università di Praga. Nel 1896, interrotti gli studi, si trasferì a Monaco e iniziò la sua vita inquieta ed errabonda che lo portò a viaggiare e a conoscere nuovi ambienti e interessanti personalità. Importanti i viaggi in Russia, Italia, Francia e gli incontri con Tolstoj, Holderlin, Cezanne, Rodin (a quest’ultimo fece da segretario dal 1895 al 1906, ricevendone una nobile lezione di rigore artistico e più tardi ne scrisse la biografia). Intanto le pubblicazioni di poesie e prose cominciavano a riscuotere buon successo, e intorno al 1910 Rilke era già considerato uno dei più noti autori di lingua tedesca. Nel 1911 fu ospite per oltre un anno della principessa Maria von Thurn und Taxis, a Duino presso Trieste, dove scrisse le famose Elegie. Afflitto da gravi crisi psicologiche, causate anche da rapporti sentimentali falliti (il matrimonio con la scultrice Clara Westhoff era durato meno di un anno: 1901-02) sperò di trovare evasione e conforto in nuovi viaggi nell’Europa meridionale, in Africa, in Scandinavia. All’inizio della guerra era a Parigi, ma esentato dal servizio militare, andò a vivere in Baviera e, terminato il conflitto, si rifugiò in Svizzera. In Svizzera, nel castello di Muzot acquistato per lui da un amico, trascorse il resto della sua vita concludendo alcune sue opere e scrivendone di nuove. Morì nel 1926 per un grave e doloroso attacco di leucemia.