Benvenuti in questo strano teatro. Più pericolante che pericoloso. Ci sono la bestia, la iena, lo storpio. Persone e personaggi, ognuno manifesto di quella presunzione d’aver capito come va fregata la vita. Con facce di capra, facce gialle, denti d’oro. Così va il mondo, sbandando su una strada di campagna, dove nel polverone incontri amici, amanti, auto rubate. C’è la mafia, ci sono i tombaroli. E i professionisti che per alibi hanno proprio la loro professione. È il teatro del mondo, un mondo guasto, pieno di crepe, che in un alternarsi di scarico e saturazione, sfiato e condensazione, la voce del poeta Cannizzo, come un mantice, tenta di tenere a bada. E riporta a parole una realtà più reale, più conforme al medio basso vivere di chi non pensa, ma parla. Scegliendo dal suo ben nutrito dizionario i suoni più marcati di una lingua che sembra incepparsi e inciampare, ma che col talento di un funambolo, tra gli applausi resta in piedi. La continua collisione di parole, di dittonghi così forti, ricordano come sia difficile catturare tutto il grottesco, di come sia impossibile ridurre la questione, rieducarne la visione. Perché anche la chimera é guasta, e allora forse non ci sono soluzioni, né speranza. Ma solo arsura, sete, sale. Con le cicale impazzite, la polvere, i latrati, il liquame. C’è tutto un disastro, e forse c’è sempre stato. Ma a volte, per forza cala il sipario. E capita di camminare in silenzio sotto le stelle di un immenso cielo. Di vedere sollevarsi il sole dalle acque. E di vederlo tramontare. Potrebbe capitare che qualcuno comprenda, che il teatro che porta in scena tutti i giorni, per quanto bruttino e ripetitivo, è anch’esso parte di quella meraviglia su cui non abbiamo potere. E che per quanto ci sia chi si ostina ad abbruttire la nostra Isola, basta uno sbuffo di lava, o il cielo di una notte perfetta dinanzi al mare, con la Luna bella come la donna con cui ti accompagni e tutto, tutto ritorna perfetto. Chiudo con una riflessione:
Cannizzo avrebbe potuto fare in tanti modi, avrebbe potuto buttarci in faccia le cose, o approfittare di stereotipi collaudati. Invece la sua operazione letteraria è molto fine e pensata. E per dirla con Pasolini ne é uscita dell’ottima ricotta. Si, ricotta. Perché il lavoro poetico di scrematura, di non scendere a compromessi, ma di aspettare che le cose riaffiorassero, ha creato una cosa davvero “fine”. E sta proprio qui il valore di questo libro, nel tempo pensato, nella raccolta di vocaboli utili, nel raccoglimento, nel silenzio speso a desiderare di averne ancora, di quel silenzio.