Il vecchio Santiago è un pescatore dalle mani callose, con una destra forte e una sinistra vigliacca. Quand’era giovane era anche un buon atleta nel braccio di ferro. Una volta restò da una mattina fino a quella successiva gomito a gomito con un grosso nero che da allora non ebbe più l’aspirazione di batterlo. Ora il campione è vecchio e il suo animo è stanco e disilluso. Quel giorno, a pescare, non poté portare con sé il ragazzo, Manolin – che i genitori volevano stesse con qualche pescatore di sicuro successo -, e s’imbarcò da solo a caccia di pesci vela e marlin. I grandi marlin, scrive Hemingway, sono pesci straordinari, veloci, forti e talvolta molto esperti, ma non intelligenti quanto un uomo. È davvero incredibile la pesca dei marlin raccontata dal grande romanziere americano seppure, ancor più, sia incredibile il racconto della tenacia del vecchio Santiago, dei suoi discorsi autoreferenziali e del suo rapporto con il mare.
Quando il libro uscì fu un successo clamoroso, ben al di là delle aspettative dello scrittore e della stessa casa editrice. Aveva scritto qualcosa di grande e lo capì subito. Cinque milioni di copie vendute al lancio del romanzo. Per i suoi contemporanei questo successo fu un vero enigma. Che cosa c’è nel romanzo di così suasivo da permettere allo scrittore di ipnotizzare a tal punto i lettori? Dov’è la linea di demarcazione fra il suo incredibile successo e il potenziale rovinoso insuccesso? Qualcuno l’ha cercato in un simbolismo nascosto nel libro, qualche altro nel fascino del drammatico rapporto d’affetto tra un vecchio e un ragazzo. Il buon Ernest ha declinato dal dare una risposta esaudiente.
Questo romanzo ha il sapore del mito. Nel leggerlo si percepisce quella stessa sensazione che si prova nel credere di aver avuto accesso a qualcosa di sacro, come quando si leggono testi quali l’Iliade o l’Antologia di Spoon River – senza voler fare paragoni. Qualcuno potrebbe storcere il naso e proclamare che, Iliade a parte, parliamo di testi popolari, fintamente colti, celebri alla massa di lettori e dunque sicuramente di poco conto. Discutiamo quindi di quei critici o quegli scrittori col dizionario in mano, che più che scrivere recensioni, romanzi e poesie, sembrano stilare elenchi di ricercatissimi vocaboli. C’è persino l’idea che il successo di questi scrittori, come Hemingway per fare un esempio, sia ascrivibile all’aver fatto parte di una cultura sospinta dalla tendenza colonizzatrice americana che si espandeva anche nella sfera letteraria – sì, è vero che l’America esporta la sua cultura, ma non mischiamo vino e aceto.
Parliamo di squali, squali mako per l’esattezza, abituati a cibarsi di tutto, abili saltatori in grado di spiccare grandi balzi fuori dal loro habitat prima di ricadervi pesantemente – Hemingway ce li ha descritti bene. Ci sono poi quelli che prendono la strada al contrario, come se, dubbiosi di quale sia il senso di marcia, consacrino qualunque cosa porti l’odore o il marchio che ricordi quella scuola, quella degli scrittori emarginati e derelitti a stelle e strisce ed anche se non hanno capito il perché, poco importa, l’importante è essere fighi. È radical chic e tanto gli basta, andare avanti a naso seppure non ne capiscano il senso vero, o forse sì. Come votare Tsipras in Italia – chiusa parentesi.
Fortuna vuole che tali animali rimangano sempre appartati nelle loro acque, ben distanti dalla terra ferma, luogo in cui noi invece possiamo celebrare onestamente un grande successo della letteratura, un dono, un piccolo sogno che ci piaccia o no legato a un americano, a distanza di molti anni, perché le campane dell’allarmismo suonano sempre, mentre quelle del cessate il fuoco non sono ancora state fuse.
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