Jack Vettriano, The Singing Butler  X TOSI
Jack Vettriano, The Singing Butler



Due cose ho cominciato in età matura, come le avessi cercate per tanto tempo, ma senza sapere dove e che cosa cercare. Non è che se uno ti dice entra là dentro e cerca, tu trovi: ti deve dire cerca un cappello verde, una borsa arancione, un ombrello con dei girasoli. Allora, anche in mezzo al caos prossimo all’entropia, trovi l’ombrello, la borsa, il cappello verde. Ma se non ti vengono date delle indicazioni, rimesti a vanvera: ti attrae un maglione rosso con dei piccoli disegni tirolesi, una bambola di celluloide, una collana annerita con dei bei turchesi, un vinile col cane e il grammofono, un acquerello svampito. Pensi che facciano al caso tuo: li rigiri, li annusi, provi a immaginarli addosso a te, sul muro, sul vecchio canterano del ’93. Cianfrusaglie, paccottiglia. Per cercare devi sapere cosa vuoi oppure qualcuno deve averti assegnato un compito, dato delle coordinate. Diciamo che fino a x anni avevo praticato con discreto successo alcuni sport, alcuni da veri uomini di coraggio, abbandonandoli ogni volta per cose nuove, mentre collezionavo inutili esperienze in svariati campi: calor di fiamma lontana, ciarpame reietto. Divago. Dicevo delle due cose iniziate in età matura:  a distanza una dall’altra di circa sette anni, come in un ciclo magico di rigenerazione, le due, chiamiamole attività, sono entrate nella mia vita per restarci, credo, finché morte non ci separi, purché corpo e mente rimangano accettabilmente sani. Ma quando cominciai la prima delle due sana non ero, e sono tuttavia qui a raccontarlo, e, quanto alla seconda, sgorgò all’improvviso, me sana, in un momento nuovamente e per me più gravemente drammatico. Inizi dunque nefasti, sotto una cattiva stella: è presto per tirare conclusioni sulla riuscita dell’una o dell’altra, e nemmeno mi importa dei risultati, essendo ormai vecchia per entrambe. Vorrei dirvi, invece, quello che continua a vagolarmi nel pensiero circa i due passatempi: come altro chiamarli? Hobby? Che tristezza. Attività ricreative? Lo sono, innegabilmente, ma fa tanto dopolavoro, oratorio, giardinetti. Insomma, i miei due loisir (bello, loisir, no?) rigeneranti, adesso che li guardo da una certa distanza, avendo perso essi un po’ del fulgore iniziale, quanto a me un po’ di quel batticuore da sciocchina innamorata ai primi appuntamenti, ora che li pratico con parsimonia, che persino talvolta mi annoiano (dico che no, non se ne fa niente per oggi, forse domani), ora che conosco alcune strategie vecchiovolpesche, che un po’ conosco altri praticanti i due o uno solo dei due passatempi, ecco, ora mi pare di capire perché mi attrassero: perché hanno delle caratteristiche smaccatamente comuni. L’aver scoperto di recente che si assomigliano così tanto mi genera un senso, come dire? di familiarità e quasi di potere, di indipendenza, di autonomia. Mentre mi vedo circondata da praticanti che un po’ se la tirano, nell’una o nell’altra, per un verso o per l’altro, che le affrontano entrambe, o una delle due, con serietà, a volte con l’atteggiamento previsto e prevedibile: faccia aggrondata, sopracciglio aggrottato, un certo sguardo che vaga oltre, che studiano con attenzione, si impegnano, ne discutono, ne hanno la vita inzeppata, io mi diletto, da eterna principiante. A me viene da ridere. Rido. I pensieri più tristi che le mie amate attività ricreative suscitano normalmente a me scatenano una gioia incontenibile, un’ilarità poderosa. Mi muovo dall’una all’altra, nell’una e nell’altra con ironia, e, soprattutto con autoironia. Non so che farci: ho fatto e faccio tante cose con estrema serietà e applicazione, e anche questi due badalucchi da attempata signora, per quanto mi comunichino un’indicibile contentezza e qualche cachinno, li affronto con la compostezza e l’austerità di chi ha frattanto imparato a non prendersi sul serio, prendendosi tuttavia molto sul serio.
Mi spiego: niente mi annoia di più di chi fa le viste di non prendersi sul serio. Ti dici: ok, non prendiamolo sul serio, costui, dacché non lo vuole. Apriti cielo! Lui ci tiene a farti sapere che non si prende sul serio, ma tu lo devi prendere seriamente sul serio, mica puoi scherzare, con uno così. E devo dire che nei miei beneamati loisir di gente che in uno dei due, o in entrambi, seppur più raramente, si prende incredibilmente sul serio, raccomandando al mondo di credere che non si prende affatto sul serio, è pieno. “Tu, da quanto?” Ricordo bene la domanda. “Tre anni”, fu la mia risposta. “Io nove” (Mmmh, un completo disastro). E in quest’altra: “E tu, da quanto?”. “Non so, poco, è da poco che…”. “Io credo di aver sempre, come dire, di aver sempre, non ricordo nemmeno quando, forse fin da bambino”. Fin da bambino, eh? ah, però! E, niente, mi dico, rassegnati tu non pratichi né l’uno né l’altro (a questo punto dovrei dire l’altra) da abbastanza tempo: principiante sei e principiante rimarrai. In principio nell’uno ci sono le scarpe, camminare, sciogliersi, sentire, ascoltare. Ti paiono tutti dei mostri di bravura. Poi viene il tempo delle agnizioni, dei riconoscimenti. Poi ancora quello in cui non ti riesce niente, per quanto ti sforzi: regredisci, sputi sangue. Subentra una nuova maniera, poi un’altra. Incontri chi ti precede su quella strada e ti dice “Ma guarda come sei cresciuta!” (e magari lui, che è ormai padrone del mezzo, non ti pare cresciuto affatto, con i suoi nove anni, spiattellati, di esperienza). Da quest’altra parte un giorno ti metti là, hai una mosca che ti ronza nella testa e zzzzz e zzzzzzz e zzzzzzzz e quel ronzio ha un ritmo, non sai tradurlo in un’idea, in un gesto, non sai cosa ne uscirà. Lanci il tuo giavellotto lontano, il tuo disco, tiri una stoccata, fai una strambata, vai a canestro. Funziona. Poi, come in quell’altro, subentra una prima chiarezza, poi lo sconforto, il buio, l’inoperosità. Attorno sono tutti più bravi: una comunità compatta e reciprocamente ossequiosa in cui non entrerai mai, hai iniziato tardi, chi sei. Pratichi e l’uno e l’altra e tuttavia, non ti importa. Cominci seriamente a divertirti. Sei agile, scattante, hai ritmo: ti piace il ritmo che ti romba dentro, lo spari fuori. Ne vengono di belle. Cominci a comunicare, a comprendere il linguaggio di entrambi. Ti guardi attorno e non ti sembrano più tutti più bravi: alcuni lo sono, li ammiri, ma non li puoi imitare, non vuoi. In più sei da una vita un cane sciolto: guardi tutto, ascolti tutto, comprendi, ma poi fai di testa tua. A quel punto oscilli dall’uno all’altra e cominci a ridere. Ridi. Non si ride, siamo seri! Ma non puoi farci niente: questi due stramaledetti compagni della tua maturità tu l’hai capiti, anche se li hai presi probabilmente dal lato sbagliato. Non puoi più darti né tono né contegno: è tardi; quanto a tirartela, temi di spaccarti. Eppure pare sia necessario tirarsela, per farsi prendere sul serio. Che vi devo dire? Non mi riesce. C’è chi si infilava le prime scarpe nello spogliatoio e già se la tirava. Chi mi mostrava i suoi portenti e se la tirava. Non ci riesco: io rido. Ah, dimenticavo: ballo tango e scrivo poesia.

 

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