Frida Khalo, Autoritratto con collana di spine, 1940 olio su tela Harry Ransom Humanities Research Center, Austin
 
Non sono malata. Sono rotta.
Ma sono felice, fintanto che potrò dipingere.
Dipingo per me stessa perché trascorro molto tempo da sola
e perché sono il soggetto che conosco meglio.
Bellezza e bruttezza sono un miraggio perché gli altri finiscono
per vedere la  nostra interiorità.
(F.K.)

 

Riflettersi indica l’atto di vedere la propria immagine su uno specchio, è una ripetizione dell’azione, che consiste nel mettere il proprio io davanti ad una superficie riflettente e ricevere indietro un’immagine oggettiva di se stessi. Se, a sua volta, poi, si volesse duplicare in pittura la propria immagine riflessa dallo specchio, allora l’inganno della rappresentazione raddoppierebbe, passando non solo attraverso la mente e l’occhio di colui che la ripropone ma anche attraverso la sua mano che riprodurrebbe sembianze reali ma pur sempre filtrate dalla propria sensibilità e dalla personale visione delle cose. Lo sguardo dell’artista-creatore-soggetto e, al contempo, spettatore “in itinere” dell’autorappresentazione, scruta se stesso riflesso e ne trae fuori gli aspetti più intimi dell’interiorità, dando vita a quell’immagine di sé che desidera arrivi e sopravviva nel tempo. Questo è l’autoritratto, sebbene non il più antico, di certo il più complesso ed affascinante genere pittorico di tutti i tempi. Una donna, una grande pittrice, che si è contraddistinta per la sua “verve” ed il tocco femminile nella produzione artistica, ha fatto dell’autoritratto il suo soggetto prediletto, rendendolo così profondamente intimo e fervidamente manifesto al tempo stesso. Lei è Frida Kahlo e dal prossimo 30 marzo e fino al 13 luglio 2014, si potrà ammirare a Roma, presso le Scuderie del Quirinale, l’omonima mostra “Frida Kahlo” a cura di Helga Prignitz-Poda, dove, oltre ad un corpus di capolavori provenienti dai principali nuclei collezionistici pubblici e privati del Messico, degli Stati Uniti e dell’Europa e ad una selezione di ritratti fotografici, saranno numerosi gli autoritratti. Uno spesso filo rosso, rosso come il sangue, rosso come la passione, lega la vita privata e quella artistica di Frida, i cui eccessi, gli amori folli e “diversi”, la dedizione all’arte, il dolore, la sopravvivenza e la rinascita, gli ideali e le rivoluzioni, sono vissuti all’insegna del motto “Viva la Vida”. La temeraria e coraggiosa pittrice messicana, nacque a Coyoacán nel 1907, ma amava definirsi concettualmente figlia della rivoluzione messicana del 1910. Affetta da spina bifida, voleva fare il medico ma all’età di 18 anni ebbe un terribile incidente in autobus che ne massacrò il corpo in più punti, obbligandola a numerose operazioni chirurgiche, a mesi di immobilità ed a sofferenze e rinunce terribili. I genitori le regalarono allora un letto a baldacchino con uno specchio sul soffitto e dei colori, scoprì così la pittura ed iniziò la serie degli autoritratti: «Dipingo autoritratti perché sono spesso sola -disse- perché sono la persona che conosco meglio», imponendosi, una volta ristabilita, sulla scena messicana ed ottenendo l’attenzione, l’ammirazione e poi l’amore del pittore murale Diego Rivera, di venti anni più anziano, suo sposo ed amante prediletto, con il quale trascorrerà tutta la sua vita, sopportando e ricambiando ripetuti tradimenti. Morì il 13 luglio del 1954, a pochi giorni dalla sua ultima mostra a Città del Messico che fu una festa ed un trionfo. In un paese di inizio Novecento in cui l’arte era totalmente affidata ai pittori muralisti, uomini, che avevano a disposizione grandi spazi di edifici su cui raccontare episodi della storia messicana, Frida impose la sua arte, il suo racconto, fatto da minuziosi quadri di piccole dimensioni in cui suggestioni prendono forma come dalle pagine di un diario. Difficile definire la pittura di Frida Kahlo con un’etichetta artistica e se di surrealismo si è parlato, il suo è stato indubbiamente un surrealismo “sui generis”, per esprimere il quale non era necessario inventare una nuova realtà o dar forma al subconscio ma le bastava vivere il quotidiano e rappresentare il vissuto in maniera simbolica, senza freni, senza restrizioni o tabù così com’era la sua vita, così come lei ardentemente ha voluto fosse, nonostante i limiti fisici: «Pensavano che anch’io fossi una surrealista -disse- ma non lo sono mai stata. Ho sempre dipinto la mia realtà, non i miei sogni». Nei suoi quadri, la ferocia dei temi è appena attenuata dai colori e dall’intensità delle tinte, la crudeltà di un destino è resa ancora più evidente dalla sincerità della rappresentazione, la tenerezza, a tratti disarmante, è cullata da un delicato sguardo, la libertà dell’espressione sostenuta da un coerente realismo, l’innata seduzione del suo spirito ostentata ma mai volgare, l’energia del carattere palesata ad ogni pennellata. Toccando punte di assoluta poesia e trascinando, poco dopo, negli abissi del più meschino inferno, Frida emoziona, coinvolge e strazia, esercitando, con l’intera sua produzione, l’arte del riflettersi, e suggerendo, ardente, una grande lezione di vita che si può racchiudere in questa semplice frase: «Piedi, a cosa servono se ho ali per volare?».

Frida Kahlo, Le due Frida, 1939 olio su tela Museo de Arte Moderno, Mexico City
Frida Kahlo, Le due Frida
Frida Kahlo, Autoritratto 1940, olio su masonite Private collection, United States
Frida Kahlo, Autoritratto 1940

 

 

 

 

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