Philip Larkin ok

Recinzioni

«Vincenzo, comincio io col dire subito quello che Larkin, a mio parere, non è: non è un poeta della nostalgia per un passato da idealizzare e custodire come cosa preziosa, non è un poeta dalla forte appartenenza geografico-territoriale. E mi perdonerai se parto da delle considerazioni, per così dire, in negativo, ma ‘recintare’ significa anche escludere dalla recinzione porzioni di realtà inservibili al nostro scopo,  che è quello di conoscere e definire al meglio l’oggetto in questione, cioè la poesia di Larkin».

«Su quest’ultimo punto non posso che essere d’accordo con te, Antonio: definire implica sempre una esclusione. E tuttavia mi sembra che la tua opinione su Larkin sia inaccurata. Tu dici che non è il poeta della nostalgia, eppure spesso i suoi versi parlano di infanzia, propria o di altri, provano a fare i conti con il passato, sia pure un passato grigio e scomodo. Come fai poi a sostenere che il poeta inglese non mostri appartenenza ad un’area geografica ben definita se, anche ad una lettura superficiale, non si può separare Larkin dalla Londra postbellica, dalla realtà sociale e politica inglese degli anni Sessanta e Settanta?».

«Larkin, provo a spiegarmi meglio, non ha un rapporto idilliaco con il passato. Quando si ritrova a scomodarlo, lo fa con percepibile fastidio. Anzi, spesso sembra che il passato sia per lui una terra insidiosa. Una terra da attraversare con la stessa cautela che si userebbe se si dovesse attraversare un campo minato. Il passato, sembra che Larkin ci suggerisca, dal momento che è, appunto, passato, non ci appartiene più, è irrecuperabile, ed è inutile, quando non retorico, o falso, parlarne come di una terra di autenticità ormai lontana e perduta. L’infanzia / è noia dimenticata, sostengono due versi da “Arrivo”, e un’altra poesia, sempre tratta dalla raccolta The less deceived del 1955 e intitolata “Tre tempi” dice: e un altro giorno saranno il passato, / una valle brucata da grasse occasioni trascurate / che scioccamente evitammo di tosare. Sono solo due esempi. E il più radicale, a questo proposito, mi sembra il verso conclusivo di “Esigenze” in cui il fastidio verso il passato si coagula in un nichilistico “desiderio d’oblio”».

«Di versi dalla perentorietà che lascia senza fiato, di quelli in cui fulmineamente si concentra tutto il suo pensiero e, diciamolo, il suo pessimismo, Larkin è un maestro. Mi vengono in mente i due versi finali di “Sia questo il verso” tratto dalla sua quarta e ultima raccolta, Finestre alte del 1974: Togliti dai piedi, dunque, prima che puoi, / e non avere bambini tuoi. Una radicalità, quella di Larkin, vissuta con ammirevole ed esemplare coerenza. Voglio ricordarlo: il poeta nato a Coventry non ha avuto figli e non ha voluto mai sposarsi. Il che, diciamolo, a me che sono scapolo per scelta e tale vorrò rimanere per tutta la vita, lo rende ancora più simpatico. Scherzosamente potrei dire: tenetevi lontano dai suoi libri se avete intenzione di fare il grande passo. Larkin nutriva una autentica avversione per il matrimonio e per la vita di coppia in generale. Le sue poesie descrivono donne stancamente alle prese con i figli in vuoti pomeriggi d’estate (“Pomeriggi”), o la prima notte di nozze disturbata da eventi naturali che assumono però forti valenze simboliche (“Vento nuziale”), o una moglie tutta intenta a sprecare i soldi e a sottrarre al marito il tempo libero (“Egoista è l’uomo”). In un’altra poesia diventa motivo di rimpianto e amarezza persino il ricordo del vecchio nome da nubile di un’amica, perduto per sempre dopo il matrimonio: poiché da quando accettasti di essere confusa / per legge con un altro, non puoi essere / semanticamente la stessa di quella giovane bellezza (“Nome di ragazza”). Così ossessionato da questo tema, Larkin, da intitolare la sua terza raccolta, del 1964, secondo alcuni la sua opera migliore, Le nozze di Pentecoste».

«Dici bene: ossessionato. E mi accorgo adesso che, come era nel caso dei temi dell’infanzia e del passato, lo stesso può dirsi per il tema del matrimonio: la sua aperta avversione non gli impedisce di farne materia di canto».

«E materia di canto non certo occasionale, Antonio, perché questi temi Larkin li affronta e li sviluppa nell’intero arco della sua parca ma pur sempre quarantennale produzione. Sempre però, come ho detto, con invidiabile coerenza».

«Potremmo dire che la poesia si dia a Larkin per negazione, come nella bellissima “Mi ricordo, mi ricordo”, una feroce satira sul mito dell’infanzia felice, che prende spunto da un viaggio in treno attraverso l’Inghilterra che il poeta compie in compagnia di un amico. Il treno fa una fermata in una stazione che dovrebbe essere ben nota a Larkin, che nella poesia esclama: Ecco Coventry! È dove sono nato. La sua euforia iniziale però si affievolisce e si spegne subito. Il poeta non riesce a riconoscere quella che senza dubbio è stata la sua città, non si orienta (ma scoprii che non capivo neanche / da che parte mi trovavo) e alla fine, dal momento che il treno comincia a lasciare la stazione, si rimette seduto e fissandosi le scarpe diventa pensieroso. L’amico allora gli chiede: «È lì che hai le tue radici?», usando un’espressione, ‘avere le radici’ appunto, che a Larkin doveva sembrare vuota di senso. E infatti parte una risposta, che è soltanto immaginata, ma che ha la precisa funzione, credo, di sfatare uno per uno tutti i luoghi comuni che certa letteratura edulcorata attribuisce all’infanzia: un giardino dove giocare, un vecchio assennato che dà utili istruzioni sulla vita, una famigliola splendida presso cui rifugiarsi nei momenti in cui si è un po’ giù, le ragazze “tutte seno”, le prime esperienze amorose impregnate di svenevoli romanticismi, il tutto, come detto, raccontato per negazione (E in quegli uffici / i miei versicoli non vennero composti / in consunto corpo dieci, apprezzati / da un illustre cugino del sindaco, / il quale non convocò mio padre e non gli disse: / Di fronte a noi, se potessimo avere / il dono di vedere nel futuro… [il corsivo in neretto è mio]. Terra di inappartenenza, l’infanzia, e, insieme all’infanzia, lo stesso luogo di nascita, Coventry: due temi che, fusi insieme, innervano questa meravigliosa poesia. In questo senso all’inizio della nostra conversazione parlavo di Larkin come di un poeta senza una precisa identità geografica».

«Prendo spunto dalla poesia che hai citato tu per dire che uno degli aspetti che stilisticamente più mi affascina di Larkin è la sua capacità di ricreare atmosfere, sensazioni attraverso ricche e vivide sequenze descrittive o dialogiche. È il caso di “Mi ricordo, mi ricordo” appunto o, per fare solo un altro esempio, la parte centrale di “Vecchi scemi”».

«È un poeta materico, Larkin, e la sua è una poesia essenzialmente metropolitana».

«Una poesia che predilige un verso narrativo, mai però sciatto o dimesso».

«Narrativo, certo. Un verso però a cui non sono estranee improvvise accensioni liriche. Storicamente i poeti della sua generazione rispondevano a un nuovo bisogno di linearità e comprensibilità, dopo la grande stagione del Modernismo. Personalmente, amo come Larkin riesce a ricreare in versi le modalità in cui il pensiero si forma, cresce e diventa discorso, un discorso quasi mai apodittico però, spesso dubitante».

«Lo scenario della sua poesia sembra essere infatti il dubbio, il costante interrogarsi sulle cose».

«Appunto. Si giunge magari a una qualche conclusione, ma sempre per tentativi, ipotesi diverse».

«Intendiamoci, e penso che tu sarai d’accordo con me, Antonio: Larkin ha sempre le idee chiare, su tutto, o quasi tutto; mostra di avere delle posizioni ben precise, ma – e questo lo caratterizza – valide solo per se stesso, non per tutti».

«Ovviamente sono d’accordo, ma fai bene a precisare, Vincenzo».

«Mi viene in mente a titolo di esempio quella poesia, “Motivi di presenza”, il cui nucleo fondamentale è l’interrogativo: la porzione più ampia di felicità è data alle coppie o la gioia è invece un fatto individuale? Troviamo tutti gli elementi che fanno di Larkin un poeta di primo piano: il descrittivismo dei primi versi che hanno il compito di delineare la situazione di partenza, il cauto interrogarsi nella sezione centrale, seguito subito dopo da una perentoria presa di posizione da parte dell’autore, alla fine della quale entrambe le posizioni, però, rimangono valide: e ne siamo convinti entrambi, / se non abbiamo sbagliato a giudicarci. O mentito».

«Quel “O mentito” che chiude il discorso, in realtà finisce per aprirlo ulteriormente, rimettere tutto in discussione, ma la poesia intanto si è conclusa e la palla (o la patata bollente, se preferisci) passa al lettore».

«Ed è lo stesso che a questo punto facciamo noi, Antonio: passare la palla al lettore».

 

Motivi di presenza

La voce della tromba, sonora e autoritaria,
mi attrae un momento verso il vetro illuminato
a vederli ballare – tutti sotto i venticinque – ,
muoversi intenti, guancia accaldata contro guancia,
solennemente al pulsare della felicità.

O così immagino, sentendo il fumo e il sudore.
Quella meravigliosa sensazione di ragazze. Perché stare qua fuori?
Ma allora, perché entrare? Il sesso, sì, ma cosa
è il sesso? Indubbiamente, credere che la porzione
più grossa di felicità tocca alle coppie –

giudizio inaccurato, a mio parere.
Io sento il richiamo di un’alta campana dall’aspra lingua
(l’arte, se preferite) il cui suono individuale
insiste che anch’io sono individuale.
Parla; io sento; anche altri potrebbero sentirla,

ma non per me, né io per loro; lo stesso
vale per la felicità. Perciò resto qua fuori,
credendo una cosa; loro si agitano avanti e indietro
credendone un’altra; e ne siamo convinti entrambi,
se non abbiamo sbagliato a giudicarci. O mentito.

dalla raccolta Ti ingannasti di meno, 1955

*

Vecchi scemi

Ma cosa pensano che sia successo, quei vecchi scemi,
per ridursi così? Credono forse che tenere spalancata
la bocca
e sbavare e pisciarsi addosso di continuo
e scordarsi di chi li ha visitati stamane
li renda più adulti? O che, a volerlo, si potrebbe far tornare
indietro le cose fino a quando ballavano per tutta la notte
o andavano a sposarsi o portavano il fucile in settembre?
O fantasticano forse che in realtà niente è cambiato,
e che loro si sono sempre comportati da sciancati o
ubriachi,
seduti per giorni tra esili sogni incessanti
ad osservare la luce agitarsi? Se non lo fanno (e non
possono farlo), è strano:
perché non gridano?
Morendo, si va in frantumi: i pezzetti che erano te
incominciano, in gran fretta, a salutarsi l’un l’altro per
sempre,
inavvertiti da tutti. È solo oblio, certo:
ci capitava anche prima, ma allora finiva,
ed era continuamente assorbito in un unico sforzo
teso a far sbocciare il fiore dal milione di petali
dell’essere qua. La prossima volta non potrai fingere
che ci sia qualcos’altro. E questi sono i primi sintomi:
non sapere come, non sentire chi, il potere di scegliere
svanito. Il loro aspetto mostra che sono prossimi:
capelli di cenere, mani da rospo, volti rugosi come prugne
secche –
Come possono far finta di nulla?
Ma forse essere vecchi è avere stanze illuminate
dentro la testa, e in esse delle persone, che recitano.
Persone che conosci, ma di cui ti sfugge il nome;
ognuno appare in lontananza come un vuoto profondo
che si colma:
si volta sulla soglia di casa, sistema una lampada, sorride
da una scala,
prende un libro già letto dallo scaffale; oppure, qualche
volta,
soltanto quelle stanze, le sedie e un fuoco ardente
o, alla finestra, un cespuglio mosso dal vento o il sole,
timido e gentile, sul muro una serata solitaria
di mezza estate dopo l’acquazzone. È là che vivono:
non qui e adesso, ma là dove tutto è successo un tempo.
È per questo che suscitano
un’aria di sconcertata assenza: cercano di essere là
e sono ancora qui. In fatti le stanze svaniscono, lasciando
un freddo buono a niente, il continuo logorio
dell’affanno – e loro a ripiegarsi sotto
l’alpe dell’estinzione, vecchi scemi che non s’accorgono
mai
quanto è vicina. È per questo forse che se ne stanno calmi:
quel picco che noi, ovunque andiamo, ci troviamo di
fronte agli occhi
è per loro un’erta da salire. Potranno mai raccontare
cos’è che li trascina indietro, e come andrà a finire?
Non di sera? Non all’arrivo degli stranieri? E neppure
attraverso
tutta quell’orrenda infanzia alla rovescia? Be’,
lo scopriremo.

dalla raccolta Finestre alte, 1974

*

A essiri chista a parola

Iddi ti futtunu. Iddi cui? Ta matri e ta patri.
Fossi no fannu apposta, ma u fannu.
Ti llinghjunu cu tutti i cuppi so
e ci ni ungiunu quaccuna supecchju, fatta propria ppi ttia.

Cettu, macari iddi foru futtuti.
Di scemi cu cappeddi e cappuotti comu si usaunu na vota,
ca sa passaunu ’n cuoppu lliffiannusi tutti
e ’n cuoppu scannannusi.

I cristiani si dununu i peni unu ccu ’n’autru,
e sti peni si fanu sempri cchjù funni
comu i costi dâ Muntagna.
Pecciò: leviti da ’mmienz’i piedi prima ca puoi
e non aviri figghj tuoi.

Titolo originale Sia questo il verso, dalla raccolta Finestre alte, 1974, traduzione in siciliano a cura di Vincenzo Galvagno e Antonio Lanza

*

Philip Larkin nacque a Coventry nel 1922 da una famiglia della media borghesia. Dopo gli studi a Oxford, trascorse la sua vita lavorando come bibliotecario. Il suo esordio poetico è del 1945 con la raccolta The north ship. L’affermazione poetica è raggiunta con The less deceived del 1955. Nel 1964 pubblica quello che è forse il suo libro poetico più importante The whitsun weddings. Un’antologia italiana delle prime tre raccolte poetiche è stata pubblicata da Einaudi nel 1969: Le nozze di Pentecoste e altre poesie, a cura di Renato Oliva e Camillo Pennati. La sua ultima raccolta è High windows del 1974, pubblicata in Italia nel 2002 sempre da Einaudi, a cura di Enrico Testa. Pubblicò anche due romanzi: Jill del 1946 e A girl in winter del 1947. Muore a Hull nel 1985.
Su l’EstroVerso n. 3 / 2014 è possibile leggere un precedente approfondimento critico intitolato alla poetica di Philip Larkin, nella rubrica l’étranger a cura di Davide Zizza.

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