salvatore di giacomo colore

Immagini d’allegrezza fanno spiccare il nucleo meditativo serio del poeta

Nella notte tra il 4 e il 5 aprile del 1934, si spegneva Salvatore Di Giacomo, nella Napoli che gli aveva dato i natali nel marzo del 1860 e nella quale aveva studiato, lavorato e pubblicato, per lo più, le sue poesie e rappresentato i suoi drammi teatrali. Non vi è chi non conosca l’arietta “Marzo”, le canzoni ” ‘E spingole frangese”, “Era de maggio”, “Nu pianefforte ‘e notte”: e si troverà sicuramente chi conosce anche il nome del loro autore e chi è al corrente della vasta attività compositiva di Di Giacomo nel campo della canzone napoletana, quell’ ‘on Salvatore, che, perfettamente in linea con molti poeti del passato, abbandonò gli studi di medicina (altri abbandonarono quelli di legge) per diventare giornalista, scrittore, poeta, drammaturgo, erudito. Di Giacomo scrisse forse (l’avverbio con quest’autore è d’obbligo) più di duecento canzoni andate per musica delle quali non abbiamo un repertorio completo, così come, in genere, non si è tuttora al corrente di quanti libretti e opuscoli, riviste, giornali abbiano ospitato sparsamente la sua cospicua produzione nonostante negli anni si siano occupati di lui svariati studiosi di fama: dal glorioso Franco Schlitzer (1), che ne stese una bibliografia descrittiva, poderosa e preziosa, a Pier Vincenzo Mengaldo (2), che ne segnala la grandezza in anni relativamente recenti.
L’autore ebbe un amore spiccato per il ‘700, età di cui si occupò da studioso e per la quale provò, in veste di poeta, sempre una simpatia speciale. Più volte ebbe a dire, spirito inattuale come ogni grande poeta, che avrebbe desiderato essere un arcade: anche se ciò evoca per lo più un’immagine di disimpegno e di vacua cantabilità, dobbiamo capire che, del gusto leggero, che volle reagire all’obbrobrio del Barocco, Di Giacomo coglieva soprattutto la tradizione musicale e la tendenza figurativa giunte fino a lui. Nessuno seppe in seguito eguagliare il miracolo espressivo compiuto da Di Giacomo: ebbe qualche imitatore, la canzone napoletana ebbe un grande successo, ma, anche nei suoi risultati migliori, essa cedette spesso a stereotipi di malincunìa eccessiva. Quello che infatti può non saltare all’occhio della produzione di Di Giacomo, tutta intrisa di verismo, di rassegnazione popolare, di fatalismo, è il gusto della vita, tessuto di ironia, di comicità che gli è tanto congeniale quanto il versante nostalgico. I due aspetti convivono spesso, si dirà, in un autore: anzi, quanto più egli intenda rappresentare l’infelicità, la tristezza, la perdita, tanto più, per contrasto, saranno evocate immagini d’allegrezza, che strideranno e faranno spiccare il nucleo meditativo serio: così Leopardi, nei Grandi Idilli, autore, per molti versi, settecentesco. Ma voglio qui ricordare il Di Giacomo che apprezza il quadretto comico-realistico colto per strada o del tutto fantasticato come accade nel sonetto “Nzurato”, da Sunette antiche, prima raccolta del 1884, epoca nella quale l’autore non era ancora sposato (si sposò molto tardi, con Elisa Avigliano, più giovane di circa vent’anni, dopo un lungo e laborioso fidanzamento e non ebbe figli):

Comm’ è bello a fumà doppo mangiato,
a panza chiena, ncopp’ a nu divano,
e rrummané mez’ ora arrepusato,
Il’ acchiala a ll’ uocchie e nu giurnale mmano!

Stanno ’e vvote accussì, miezo stunato,
sento, piglianno suonno chiano chiano,
’o piccerillo mio ca s’è sfrenato,
e ’a mamma ca lu strilla da luntano.

Bebè, tutto na vota, spaparanza
la porta, trase, me lu veco arreto …
Muglièrema lu votta e po’ se scanza…

Zompa, allucca, strascina lu tappeto;
po’ se vene a menà ncopp’ a la panza…
Eccómme! Manco ccà stongo cuieto!…

Quadretto familiare gentile, ma nuovo: è la cuntrora (celebrata altre volte e a cui è dedicata una canzonetta in Voce luntane, “Cuntrora”, appartenente alle opere giovanili come “Nzurato”), momento sacro della giornata, che il bambino dissacra con la sua vitalità, poiché non vuole dormire, come tutti i bimbi; a nulla valgono i tentativi della madre di preservare il marito dall’irruenza del piccino, almeno in salotto: il bambino salta, grida, trascina il tappeto e finisce per salire sulla pancia del padre. Al ritmo sonnolento delle quartine si oppone la concitazione delle terzine, con la naturalezza mimetica che è propria dello stile digiacomiano: così come funzionano evocativamente le rime dolci -ano, -ato (la o finale è evanescente come le e e le a) rispetto all’aggressività di -anza, specie nel vocabolo popolare panza, che, nella percezione di un non parlante il napoletano, porta con sé una carica di indubbia ulteriore comicità.
‘O funneco (il fondaco) verde, 1886, di poco successivo ai Sonetti, gli venne fatto di scrivere proprio per distogliere i lettori dall’idea che la sua fosse soprattutto una poesia sentimentale, nella quale lo spirito vociante e bizzarro della napoletanità giaceva dimenticato. Non era vero, perché nei Sonetti convivevano già l’una e l’altra anima napoletana, come si è visto. Ma ci voleva qualcosa di più marcato, di più dedicato alla sottolineatura del piglio canzonatorio dei napoletani, che appare tuttavia legato al malinconico ricordo della vecchia Napoli, sottoposta a risanamento in quegli anni. I componimenti sono preceduti ciascuno da una didascalia che radica il testo più ancora alla sua natura di bozzetto teatrale. Nel sonetto “‘A strazzione”, delle popolane, nel caldo di un pomeriggio di luglio, attendono l’estrazione dei numeri del lotto, raccontandosi i sogni e vantandosi di non essere di quelle che corrono a giocare i corrispondenti numeri della smorfia:

– Cummà, ch’è asciuto?… – Nun ‘o saccio ancora.
– E c’or’è? – Songo ‘e ccinche. – Overamente!?…
Neh, comme va ca nun se sape niente?
‘A strazzione avesse cagnata ora?…
– Cummà! – Dicite. – Aiere, ‘int’ ‘a cuntrora,
mme sunnaie nu tavuto e tre pezziente…
– Dicite chesto?… I’ mme sunnaie. ccà fora,
ca mm’erano cadute tutt’ ‘e diente!

– Sti suonne overo so’ nzìpete assaie!
– ‘E diente!… – E tre pezziente e nu tavuto!…
– Faccio buono i’ ca nun mm’ ‘e ghioco maie!…

‘A vi’ lloco! ‘A vi’ lloco! – oi ni’, ch’è asciuto?…
– Trentadoie primm’aletto! – Uh! ‘E diente! – E po’?
– Nuvanta! – Uh! ‘E pezziente!… Uh, sciorta, scio’!…

Ora topica, las cinco de la tarde: il mondo immobile, sempre uguale, dd”o bascio, potrebbe cambiare improvvisamente: ma le due donne, che pure hanno sognato i numeri vincenti in sogni giudicati però insipidi, senza significato, non li hanno giocati, quasi per un senso di superiorità rispetto al vicinato (o forse perché non avevano nemmeno il soldino per la giocata), cosicché la sciorta le lascia immutate nella loro povertà.
I sonetti del Funneco sono come i quadri di un’esposizione: storie minime di povertà e malizia, ingenuità e vendetta, superstizione e vitelloneria, come in “Chiacchiaratiella ‘e niente”, in cui i due dialoganti sparlano, fumando fuori di una cantina, di una certa Peppenella, bella ma non più vergine, schermendosi molto del fatto: ma, secondo il modello epigrammatico, il sonetto si chiude, chiudendo la raccolta, ancora una volta su un aprosdoketon:

– Ma è bona assaie!… Pur’io m’era cecato…
– Pure vuie! – M’era cuotto, c’aggia fa’…
– E mo?… – Ma che! Faciteme appiccià…

Il finale a sorpresa è un tratto ricorrente di tanta poesia di Di Giacomo, segno che, accanto alla vena malinconica e sognante, anche laddove l’intento non appare principalmente bozzettistico e comico-realistico, vi gioca un delicato senso dell’umorismo: una specie di sentimento del contrario, come volle distinguere Pirandello la comicità riflessiva che si fa empatia, riconoscimento dell’universale condizione umana. E’ per questo che la grandezza di Di Giacomo si può cogliere soprattutto nel “comico”: svincolando la sua amata poesia leggera dal lirismo, dalla soggettività, essa si fa canto di tutti, denuncia e quasi poesia “civile”, come accade nel poemetto “Lassammo fa’ Dio…”, contenuto nella raccolta Canzone e Ariette nove, 1916. Vi si narra, con piglio teatrale, della decisione di Dio di farsi un giretto sulla Terra la domenica di Pasqua assieme a san Pietro, il quale mette sull’avviso il padre eterno, sconsigliandolo:

Mah… Lei siete il padrone!
Vulite vedè ‘a Terra? E fate pure…
Però… vedete… francamente, ‘a Terra
è ‘nu poco afflittiva.
V’avesse disgustà!…

Ma Dio sceglie Napoli e perciò san Pietro si affretta a prepararsi per la gitarella fuori porta:

E senza perdere tempo, llà ppe’ llà,
san Pietro se vestette comilfò
‘nu pantalone inglese a quadrigliè,
‘nu gilè (comm’ ‘o pòrteno ‘e cocò)
tutto pesielli verdi in campo blu,
cappiello a tubbo, cravatta a rabà,
scicco stiffèlio di color rapè
e un piccolo bastone di bambù.
Sto bene? – Elegantone…
Andiamo dunque! – E ghiammo…
Quando mme piglio ‘e guante…
E in un batter d’occhio eccoli a Napoli,
in mezzo piazza Dante.

Dio parla un miscuglio di napoletano, italiano e milanese, come è giusto che sia nel Padre di tutti, un po’ anticipando, quasi, le gag di Totò:

Sai, caro, ma l’è mica male
questa vostra città! Mi fa piacere
assai di rivederla:
ci mancavo dal secolo passato…
Ma proprio ha molto, molto migliorato .
La statua qui davante
cosa l’è? L’Aligherio?..

Il Signore è tutto contento di gustarsi il viavai spensierato del bel mondo, sorseggiando una mezza limonata e non si accorge di quello che aveva temuto san Pietro, cioè dell’infelicità umana che invece espone una vasta campionatura di sé mmiez”a strata e che il santo gli mostra, per liberarlo dell’illusione che vada tutto bene:

stuorte, struppie, cecate,
giuvene e bicchiarielle,
guagliune senza scarpe,
vicchiarelle appuiate a ‘e bastuncielle,
scartellate, malate,
e ciert’uocchie arrussute
chine ‘e lacreme – ‘e mmane
secche, aperte, stennute…

Dio, sconvolto dalla scoperta, decide di raccogliere in un grande lenzuolo, sorretto da cento angeli, tutti i più disperati e di portarseli in Paradiso per far passare loro un po’ di festa, essendo Pasqua. La posta sarà troppo alta: per essere felici i poveri possono sperare solo nel paraviso, ma Nannina ‘a pezzente non ci sta a morire, anche se sarebbe così dolce, perché tiene una criatura sulla terra, che ha bisogno di lei e perciò ritorna, correndo e correndo, ruzzolando, a Napoli, dal suo bambino.

La scena della mappata (“grosso involto”: il lenzuolo con tutti i pezzenti che sale verso il cielo, con l’effetto a cascata dei corpi di tanti quadri del Sei-Settecento) merita da sola il plauso di tutto il componimento:

Figurateve ‘nu poco
‘sta mappata ca pe’ ll’aria
ogne tanto s’abbuffava,
se sbuffava – e viaggiava
‘ncopp’ ‘o viento – chiena ‘e strille,
chiena ‘e ggente. – Cchiù de mille!
Figurateve ‘nu poco
che ‘nzalata e c’ammuina!
Chi chiagneva, chi rereva,
chi alluccava: – I’ mo’ mm’affoco! –
Chi cantava – chi chiammava:
– Neh, Totò!… – Peppì!… Giuvà!…
Donn’Aniè! – Don Ferdinà!…
– Mo addò iammo?. – E ba’ ‘nce ‘o spia!..
– Chi s’ ‘a fatta ‘a pippa mia?…
– Prufessò!… – Pronto!… – Addò state?
– Sto cchiù ‘ncoppa… – A voi! Sapete,
abbarate addò sputate!…
– Ma che ghiammo ‘int’ ‘o pallone ?! . .
– Pe’, tenisse ‘nu muzzone?…
– Bu! bu! bu!. – Chi è?!. Passa llà!…
– Nun buttà!… – Sode cu’ ‘e mmane!…
– Neh, chiammateve a ‘stu cane! … –

Abbarate addò sputate!, Sode cu’ ‘e mmane!, Chiammateve a ‘stu cane!, impagabili frammenti di un discorso amoroso (per riutilizzare il celebre titolo di un saggio di R. Barthes) che Salvatore Di Giacomo tiene alla sua bella città, da sempre, nel lirico, nel drammatico, ma soprattutto nel comico.

____________

(1) Franco Schlitzer, Salvatore Di Giacomo, Ricerche e note bibliografiche, Fi, Sansoni,1966
(2) Pier Vincenzo Mengaldo, Studi su Salvatore Di Giacomo, Na, Liguori, 2003

Potrebbero interessarti