Poesia e fulgore, rubrica a cura di Franca Alaimo
La poesia di Valentina Furlotti è sostenuta dalla qualità rarissima dell’attenzione che Cristina Campo (in Gli imperdonabili, Adelphi Edizioni, pag. 167) definisce «il solo cammino verso l’inesprimibile, la sola strada al mistero. Infatti è solidamente ancorata al reale, e soltanto per allusioni celate nel reale si manifesta il mistero». Quanti hanno già scritto criticamente di Fosforescenze hanno definito i versi della Furlotti inquietanti, sottolineandone l’inusitata mistura di devianza ed incanto, di malvagità fatali e fascinosi brillii.
Già nel testo iniziale, dopo la descrizione di una qualsiasi domenica invernale in una località di mare, con il sopraggiungere delle prime ombre, tutto quello che sotto la luce era apparso banale e abitudinario, viene rapito altrove da una minaccia. Sembra quasi che l’autrice si appresti a raccontare una fiaba, in cui all’improvviso, stravolto l’ordinario, si insinuino la paura e l’inquietante presenza di qualcosa di impalpabile e misterioso: l’ombra sarà troppo forte/ il parco si volterà dall’altra parte/ un’onda sommergerà ogni cosa/ e l’ostrica chiuderà la bocca sulla perla.
Al contrario accade pure che la mostruosità sia reale e manifesta come quella dell’Uomo Elefante, «che insegue il sogno di dormire come una persona qualunque» (da: “Note dell’autrice”, pag.71), ed allora è la normalità ad apparire impossibile, fantasiosa.
La chiave di lettura di questo mondo poetico tanto inusuale potrebbe apparire ardua, se non ci venisse consegnata dalla stessa autrice in un testo a pagina diciannove, in cui si legge: mentre vento fa sacchetto./ American Beauty. con un evidente rimando ad una delle scene più suggestive del celeberrimo film di Sam Mendes: quella in cui Ricky, il giovane protagonista, fa vedere alla sua ragazza un breve video che riprende la danza di un sacchetto gonfiato dal vento mentre lo commenta con parole di grande potenza poetica: «È stato il giorno -dice- in cui ho capito che c’era tutta un’intera vita dietro ogni cosa» e ancora: «A volte c’è così tanta bellezza nel mondo che non riesco ad accettarla e il mio cuore sembra franare».
Senza tergiversare oltre, l’utilità di quest’ultima citazione risiede nel fatto che le parole di Ricky potrebbero stare benissimo sulla bocca della giovane poeta Furlotti, se è vero che ciò che muove la sua scrittura è proprio l’interesse verso l’altra vita celata in ogni cosa e che, contrariamente a quanto potrebbe sembrare, è la bellezza la sua meta ultima. Ed ancora si rende utile ricordare come nelle fiabe è per la bellezza che eroi ed eroine affrontano il male e rischiano la morte. Come loro, anche quando la poeta mette in scena eventi tragici (morti per radiazioni nocive, soprattutto), è affascinata dalla bellezza della luce. Le accade, infatti, la stessa emozione di Hänsel e Gretel, che, dopo essersi perduti nel bosco ed avere vagato a lungo nel buio, finalmente scorgono una luce alla finestra di una casa e si rallegrano, anche se poi quella luce li condurrà nelle grinfie della strega cattiva che cercherà in ogni modo di divorarli. Per un momento, però, è la festa oculare a sovrastare il male futuro, così che sembra quasi di minore importanza che quella luce (sprigionata dal radio per le operaie americane, o dal plutonio sfuggito in un laboratorio a Los Alamos, o dal cesio ingoiato da una bambina) sia causa di dolore e morte: essa intanto brilla rendendo i corpi, le vesti, i giocattoli più seducenti.
Tornando indietro alla poesia a pagina diciannove, da cui ha preso le mosse il discorso, è interessante notare come in questo caso la percezione del male sia affidata non all’immagine, ma al suono: quello che fanno le traccole attraversando il cielo e le strilla della ragazza con sindrome di Tourette; ed è, quest’ultimo, un altro elemento della scrittura di Valentina Furlotti: il verso, infatti, spesso ha un ritmo tambureggiante, ossessivo, incisivo (le parole sono esatte, attinte, quando necessario, dal lessico scientifico), ma talvolta al di là di quello udibile, se ne può immaginare uno diverso. In questo caso, per esempio, sfogliando le schede di un manuale ornitologico, accanto alla voce “verso”, ho trovato questi suoni onomatopeici: jack, chiack, kja, ciak, che rimandano immediatamente ai suoni disarticolati emessi dai malati di sindrome di Tourette, come la ragazza citata nel testo. In altre parole le taccole non stanno lì a caso, ma sono creature reali come reale è la ragazza, e tra loro si dipana una sorta di sottesa e magica contiguità sonora, quasi un medesimo ritmo destinale. Ed è, appunto, un’altra caratteristica della fiaba quella di annodare, se non mescolare insieme umanità ed animalità.
Tanta insistenza sulle relazioni fra la scrittura della Furlotti e la fiaba non intende in alcun modo sminuirne la tragicità testimoniale, visto che di fatto la poeta riprende tanti episodi di cronaca raccontandoli con mirabile aderenza, quanto, invece, dimostrare come riesca, pur attenendosi alla realtà, a creare incanto e meraviglia.
La risposta chiuderà ad anello quanto detto fino a questo momento, ritornando al ruolo dell’attenzione, da cui, come scrive la Campo, si genera la meraviglia. Lo sguardo della Furlotti avanza, infatti, con tale atteggiamento verso ogni direzione e luogo del mondo: dagli abissi marini, in cui il melanoceta illumina il buio dei fondali per predare con i batteri azzurri bioluminescenti, allo spazio astrale dove scoppiano Supernove; percorre le terre emerse da Oriente ad Occidente, i paesi mediterranei e i ghiacci del Nord, esplora i regni della Natura, spesso combinandoli insieme, come accade anche per le creature mitologiche, quasi per una concretizzazione delle più fantasiose relazioni possibili.
Così la vicina di casa che si affaccia sull’abisso di luce, prende le sembianze di una falena (pag. 16); l’uomo che è stato colpito da un fulmine e si è miracolosamente salvato convive con le morfo blu (pag. 15) reiterando attorno a sé quell’effetto flash
grazie alle loro ali turbinanti; così come tumori, ombre apparse sulle lastre radiografiche, le lame elettriche del quinto/ nervo cranico (pag. 41) si trasformano in altro: sfolgorii, amuleti, un pesce viola, una biglia, come a dire che i confini del reale si spostano incessantemente, che nulla esiste di definitivo, che infine ogni cosa ha una sorta di natura acquatica, mutevole, che ubbidisce allo scorrere del Tutto,
Come già accennato, la meta del versificare dell’autrice è la Bellezza alla quale appartiene anche il Male (secondo un passo dell’Upanişad anche un campo di morti in battaglia può rappresentare un’esperienza estetica positiva), e non si tratta di obliare l’etica, ma di sospendere il giudizio a favore di una percezione sensoriale magica, che non esclude, in seguito, un coinvolgimento emozionale profondo, intriso di umanissima pietas: è questa, infatti, la postura mentale che caratterizza l’ultima sezione del libro “Alcazaba”, in cui viene delineata la figura (vagamente cristica) di un Rabbunì (pag, 55) che stringe tra le mani un uovo che si tinge miracolosamente di scarlatto per quanti non credono. La sua parola salvifica (il lògos biblico e filosofico) si identifica, infine, con la parola poetica: cura per gli infermi (pag. 69). È in questa sezione che echeggiano maggiormente le tante letture di Valentina Furlotti: i Vangeli canonici e gli apocrifi; i mistici occidentali ed orientali, tanti scrittori e poeti del Novecento (Montale e Gadda -specie “La cognizione del dolore”-, Landolfi, il medico-poeta Benn, il Borges de “Il libro degli essere immaginari”, che vengono convocati direttamente o indirettamente sulle pagine in una sorta di cerimonia mistico-liturgica, che scorge nel dolore la dimensione del sacrificio, cioè del rendere sacro qualsiasi sua manifestazione.
C’è tanto cinema anche, tra cui il già citato American Beauty, ma anche Il mago di Oz, diretto da V. Fleming e ispirato al primo dei romanzi di F. Baum (nel testo a pagina diciotto un uomo con in testa cuffie antirumore e un catino/ ad alta conducibilità viene infatti paragonato al boscaiolo di latta che però non sa né cosa gli manca, né cosa cerca) e il genere splatter, i tragici greci, probabilmente Freud e non so quant’altro ancora.
Non manca l’autobiografismo e un’improvvisa virata sui mostri interiori (oscurità incoffessabili, abbandoni e assenze insostenibili, sdoppiamenti identitari) in particolare nella sezione “Supernova”. in cui si conferma la personalità complessa di Valentina Furlotti: curiosa di verità cronachistica, concreta, ma capace di performance immaginosa, dibattuta fra pessimismo e sete di un rinnovamento collettivo, secondo un certo misticismo pop (il pensiero va a Franco Battiato), che trova il suo culmine nella costruzione di un’alcazaba edenica (una sorta di anti-torre di Babele) con i giardini, gli aranci e acqua/ che scorre ovunque, in cui l’elemento dell’acqua rappresenta l’incessante e multiforme opera della Creazione.