Saggistica di Luigi Carotenuto
“Il saggio, come la poesia, è un genere capace di riflettere la superficie della realtà soltanto a partire da quel frammento deformante che è l’individuo, con il suo irripetibile retroterra e le sue idiosincrasie”. Così, cercando di contenere, e insieme espandere le sue riflessioni partendo dal continente singolare dell’individuo, Matteo Marchesini offre, in questo saggio edito da Gaffi, alcune chiavi di interpretazione del panorama vastissimo, dissestato, a tratti prezioso, della poesia contemporanea. Il critico possiede la verve del polemista e la sua penna sa essere sottile e acuminata nell’elencare i mali del verso odierno: “La Repubblica della poesia rifondata in questi anni, come i gerghi hegeliani dopo Hegel e quelli fenomenologici dopo Husserl, è la città della farsa, che si ripresenta sulle fondamenta della tragica cittadella un tempo chiamata lirica moderna” (pagina 7); questa investitura sempre più kitsch del ruolo e del modo di fare poesia viene messa alla berlina: “contro i risultati del miglior Auden, i cascami del peggior Valéry” (pag.31), gli autori finiscono per essere fagocitati dall’entropia e non riescono a trovare giustificazioni interne ai loro testi, che li rendano attendibili e resistenti, a prova di complessità per così dire. La strada indicata dal critico privilegia quindi i poeti-critici, i poeti-saggisti, coloro che lavorano continuamente con il linguaggio e la dialettica ragionante, poeti loici che hanno scavato sui testi, raggiunto una economia (ecologia) che contempli la controversa disarmonia del mondo, lasci spiragli per accennare alla complessità del sistema-mondo. Tra i poeti esemplari contemplati da Marchesini troviamo Umberto Fiori, che “si porta dietro un bagaglio leggero, sostenuto da una sintassi robusta e sorvegliata”, la cui poesia ha la “capacità di lustrare fino alla vertigine un linguaggio anonimo, mediocre, e così di straniarlo, lasciando balenare nella superficie cristallina l’abisso della sua grottesca o minacciosa insensatezza, il brivido che può offrire l’intuizione improvvisa del suo confortevole inferno, della sua mancanza di fondamenta. Fiori sa trovare esempi calzanti per descrivere i modi in cui gli individui soggetti a questa lingua sperimentano la vergogna del per-sè, instabile e carente d’essere, davanti al muto, ottuso, impenetrabile in-sè delle cose” (pag.32-33). Altro poeta è Andrea Temporelli, che “vuole ospitare nei suoi versi la maggior fetta di realtà possibile, in un equilibrato compromesso tra la via intensiva e quella estensiva. Con molti equivoci, ma anche con molta onestà, crede davvero nelle temperature alte della poesia” (pag.35). A lui si aggiungono Zuccato, che “sfrutta voracemente l’immaginario suggerito da un’epoca in cui la storia fisica e quella sociale si vanno mescolando dentro un unico fiume gonfio di scorie” (pag.38), Maccari, Paolo Febbraro (poeti definiti “pudici”), infine Elio Pecora, Giorgio Manacorda, Alessandro Fo, Anna Maria Carpi, Patrizia Cavalli.
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