Mario Mafai, Fiori recisi CRUCIANI
Mario Mafai, Fiori recisi

 

La struttura del mio tempo è alterata
nel mio territorio di selce irreversibile
scorre un sacrificio primitivo
zampe di fiera sulla mia
trabeazione di cera liquefatta
scivolerò in corsa su un rimedio
sarò un possesso imbavagliata
crocefissa al tempo
griderò amen girandomi di
spalle alla festa autunnale
senza Dio sarò fuoco a fuoco
gli lascerò in mano la mia vita in fiamme.

*

Se solo avessi potuto raccontarti di me
ma la morte ruvida aveva
già posato il fiato sul tuo collo.
La campana risuonava forte i suoi rintocchi
e tu allora iniziavi a comprendere
che nella vita è contenuta l’insidia del male
fino ad allora negato.
Quando per la prima volta hai
riconosciuto che il paese delle Saline
abbandonato con l’orologio che
segnava fisso le dieci e ventisette
di non si sa quale giorno
era sublime e che noi lo amavamo
lo avevamo sempre amato senza saperlo
e desideravamo rimanere lì per sempre
proprio ora che lo visitavi per
l’ultima volta te ne rendevi conto.
Erano solo ruderi allora
ma noi in pattini eravamo incantati
e ricordo che ti sei fermato a guardare
come non ti ho mai visto
il tuo sguardo poche ore prima di morire
era già eterno.

*

Se l’adultera convincesse l’ideologia
che l’abitudine è il limite della creazione
e a titoli di donna riscattasse
ogni convinzione in certezza
se le cellule ignoranti di stelle conversassero
in un lessico impossibile a capo del tempo
i figli martiri della nascita consumerebbero
un sudario di ricordi amputati
incinta di segni opposti la madre offrirebbe
la cima per essere abbattuta.
La preghiera è un rammendo di luce senza fine.

*

S’affannava la ragione
divorata dalle irriconoscibili Flaminie
nella discendenza spettrale
dell’icona travestita aravi
i capelli e spacciavi la bocca per
ginestra sul sangue degli avversari
l’apnea dei miei genitali distratti
tramandati in battaglia
per un sacramento amaro.
Bevi l’erezione calda con cui batti
le donne che affollano il mio corpo
nel mio letto incoronato dall’incendio.
Siediti accanto a me ora
fammi un segno di frumento sulla croce.
Recito il breviario blasfemo della perdizione.
Io sono condannata a vita.

*

In ginocchio saldiamo la presenza
e abbiamo righe da spendere
in questo pensiero ibrido
che ha inchiodato il mito
la diteggiatura crescente
dei tuoi miracoli atei masticati a corde
dagli infiniti fragili delle stagioni
nel chiostro magnetico del tuo sguardo versato
in tre atti sul mio palato rovesciato
dai fuochi rampicanti
dell’amore che muore.
Tu rubi munito di grano
la mia bocca che sazia i giuramenti
i sacramenti sottili soffi
hai la moneta nuziale in tasca
per ingannare me
che con un bacio ti uccido.

*

Visione

Distesi uno accanto all’altra
piantavamo stelle come tende
su lacrime sommate
il battesimo del cuore doppio e mutilato
dal dolore degli amanti che chiamano santo.
Si china un mondo nudo contro di me
un mondo implacabile in cerca di un creatore
forse è un inganno, sogno illecito
un’alba senza terra
un’ebbrezza con le mani
protese che vogliono prendermi
un predicatore avaro che ha imparato a volare
è un richiamo, una voce che semina luce in una
sentenza di morte, che risuona dentro come comando
mi smarrisco, perdo il volere
sono in viaggio con la mia identità sbagliata
i respiri al rovescio
il sublime concentrico mi dà la mano
tace il visibile ingenuo
il suo intero teorema è vacante
mentre tu viaggi su un treno di morti.
In prodezze da cento occhi
sono fra nuove genti
giganti di acciaio muovono gli arti
in movimenti solenni e imperiali
torri spietate di reti plumbee
carte geografiche piovono come comete
tutto risponde al mio desiderio,
ho corone ai polsi, io devo andare.
Al fronte dell’invisibile
cedo l’unità di misura dello sguardo
un rosaio di reti blu acciaio
racconta un luogo di silenzio esile mai invecchiato
nell’eruzione del mio desiderio diluvia questa terra
sulla miniera della mia perfetta sete
il tempo qui è scaduto
le leggi sono innamorate.
Mi avvicino e tutto scompare
il suo portamento maestoso si dissolve
in un casto abbaglio
i suoi arpeggi rampicanti sono
maglie del possibile
nervature, innesti di allucinazioni coraggiose
la cui ampiezza è nel mio bramare l’altrove
nel mio dispormi ogni volta
come un angelo crocifisso ai sensi
a sognare l’universo in una zolla di terra
avvolta, moltiplicata un milione di volte
con la volontà di qualcuno che ama
in ogni istante annodato in me.
Mi dici di fissare l’autostrada, i fari, le targhe
sei preoccupato che io possa
scomparire senza lasciare traccia organica
che io possa seguire il verso del fuoco
che mi brucia duro nel petto
che possa dissolvermi come sale
e tu non possa più tenere il mio volto
fra le mani e pronunciare il mio nome
che possa tramontare per quel richiamo
in perfetta umiltà, battendo sul tempo il tempo
andando via dimenticando tutto
guardando sfuggire la vita senza dolore
portata via come su un nastro.
Ma il mio volto non è mai esistito
forse non lo sai.
Insieme piansero il cielo.

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