Sabrina Giarratana è nata a Bologna nel 1965 da mamma olandese e papà siciliano. Il suo primo libro “Amica terra” (Fatatrac 2008 e 2015) è entrato nella Selezione White Ravens 2009 della InternationaleJugendbibliothek di Monaco, i “corvi bianchi” della letteratura per l’infanzia, selezione annuale dei 250 migliori libri per ragazzi nel mondo, mentre, il suo secondo libro, “Filastrocche in valigia, viaggi dell’andata e del ritorno” (Nuove Edizioni Romane 2009) ha vinto il Premio delle Palme 2010 come miglior albo illustrato di autore italiano. Da un viaggio nei Campi Profughi Sahrawi di Tindouf in Algeria è nato il libro “La bambina delle nuvole, una storia del Sahara” (Rizzoli 2009 e 2013). Con il libro “Poesie di luce” (Motta Junior Giunti 2014) ha vinto il Premio Rodari 2015. L’ultimo nato è “Canti dell’attesa” (Il Leone Verde Edizioni 2015), ventuno poesie per accompagnare il viaggio della gravidanza e della nascita.
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Qual è il ricordo legato alla sua prima poesia?
“Io bambina – avevo tre anni, era il 1968 – che ascolto Giuseppe Ungaretti mentre legge alla televisione i versi dell’Odissea di Omero, in apertura dello sceneggiato. E l’intensità del suo sguardo e la gravità della sua voce mi colpiscono molto prima delle parole che sta leggendo, di cui capisco poco, forse appena qualcosa, però bastano per accendermi un desiderio di capire e per farmi arrivare una musica, un ritmo, una profondità di parola che non avevo mai ascoltato prima. Così mi porto dentro il mistero del senso delle sue parole, mescolato a un incantamento profondo. Come se quel poeta dagli occhi vivacissimi e familiari, che tanto mi fanno pensare a quelli di mio zio, mi avesse aperto all’improvviso una porticina sul mistero del mondo e mi avesse risucchiato dentro con le sue parole. Da quel momento in poi non ho potuto fare a meno di domandarmi cosa c’era al di là di quella porticina e di desiderare di tornarci”.
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Quali i poeti (e, più in generale, gli autori) significativi per la sua formazione?
“Ungaretti, Omero e Dante. Insieme a Rodari, che per me cresciuta negli anni ‘70 è stato un incontro fondamentale, un vero “apri-scatola cranica”, una voce finalmente libera e dalla parte dei bambini molto diversa da tutte le altre intrise di morale che appesantivano le nostre antologie scolastiche in quegli anni. E anche insieme a Stevenson e al suo “A child’s garden of verses”, libro che avevamo a casa in edizione americana accompagnata dalle bellissime fotografie in bianco e nero di Toni Frissel, dono di mia nonna a mia mamma bambina negli anni in cui hanno vissuto in America e di cui la mamma ogni tanto leggeva dei versi ad alta voce in inglese. Anche per i poeti incontrati negli anni della scuola devo sempre ringraziare la voce di qualcuno e il suo amore per le parole- una maestra, un professore, una professoressa -che ha saputo incuriosirmi, incantarmi, spiazzarmi, divertirmi, trasmettermi la bellezza e la necessità della lettura di certi testi, aprirmi nuove porte e nuove finestre sul mistero dell’esistenza per poi lasciarmi sempre piena di nuove domande. Negli anni del liceo insieme a Ungaretti ho amato molto Montale, Quasimodo, la poesia ermetica, poi alla fine del liceo Pablo Neruda e García Lorca. Negli anni successivi ho lasciato un po’ da parte la poesia per i romanzi, quando viaggiavo in treno da pendolare da Bologna a Milano e ritorno (il più amato, Dostoevskij), per poi tornare alla poesia con Emily Dickinson e Nazim Hikmet più avanti. Poi, dopo i quarant’anni e grazie ai miei figli e alla lettura ad alta voce per loro, ho ritrovato Rodari e Stevenson, ho scoperto Piumini e Tognolini, Quarenghi e Scialoja e altri poeti che scrivono versi di sorprendente bellezza, capaci di parlare a tutti, sia ai bambini che agli adulti”.
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Qual è – nell’arco della giornata – il momento ideale per dedicarsi alla poesia (o, più genericamente, alla scrittura)?
“È quando sono da sola e in silenzio, in qualunque momento della giornata, senza distrazioni e senza fretta, per dare alla scrittura l’attenzione e l’ascolto che richiede”.
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Qual è la sua attuale spiegazione/definizione di poesia?
“La poesia è lo strumento più potente che ha la parola per esprimersi ed è anche la rivelazione più evidente dell’impotenza della parola di fronte al mistero della nostra esistenza. Solo nel silenzio, nell’ammutolirsi della parola, possiamo abbracciare il mistero. Nei silenzi della poesia il mistero trova i suoi spazi, il suo respiro, e nelle parole della poesia trova la sua trasparenza, i segni della sua quotidiana presenza in noi e nelle più piccole cose che ci circondano. Emily Dickinson ha detto: “Non conosco nulla al mondo che abbia tanto potere quanto la parola. A volte ne scrivo una, e la guardo, fino a quando non comincia a splendere.” Ungaretti invece ha detto: “La parola è impotente, la parola non riuscirà mai a dare il segreto che è in noi, mai. Lo avvicina”.
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Quando una poesia può dirsi compiuta?
“Quando, riletta dopo molto tempo, ritrova in ogni parola e in ogni silenzio la sua perfezione e la sua necessità di esistere, come se esistesse da sempre. Quando incontra un lettore che sente che quelle parole erano già dentro di lui, ma che non avrebbe saputo dirle senza quella poesia”.
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La poesia può (e se può in che modo) restituire “purezza” alla parola?
“La poesia fa con la parola il lavoro che fa la scultura con la pietra: un lavoro a togliere. Di questo lavoro di lima e di scavo lento e paziente resta l’essenziale, la parte più “originaria e pura”, ciò che, almeno per il poeta che la scrive, è fondamentale salvare dalla morte di una lingua sciatta, ovvia, senz’anima”.
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Oggigiorno, qual è (ammesso che ne abbia uno) l’incarico della poesia?
“La poesia salva la vita, dice il titolo del bellissimo libro di Donatella Bisutti. Io credo che la poesia abbia l’incarico di salvarci la vita e di farsi strumento di resistenza contro l’orrore del mondo. La poesia ci mette in contatto con quel luogo sacro e profondo che è in noi e ci permette di tenere acceso il nostro sguardo di meraviglia e di speranza sulla realtà, nonostante tutto, al di là di tutto. La poesia ha salvato davvero la vita a molti poeti che hanno vissuto l’esperienza della guerra e della prigionia (penso a Ungaretti, a Hikmet), perché mai come quando l’uomo vive lo svilimento totale di sé e tocca con mano l’estrema fragilità, l’insensatezza e l’orrore a cui può ridursi l’esistenza, diventa per contrapposizione così forte la sua spinta a resistere e ad innalzarsi sopra quell’orrore attraverso la potenza e la bellezza della parola. L’incarico della poesia continua ad essere oggi quello di salvarci la vita salvandoci dalla bruttezza, dalla disattenzione, dalla superficialità, dalle “overdose” di rumori a cui siamo continuamente sottoposti, e di predisporci invece alla bellezza, alla profondità, all’ascolto del silenzio, all’attenzione verso noi stessi, gli altri e il mondo”.
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Riporterebbe una poesia o uno stralcio di testo nel quale all’occorrenza trova rifugio/conforto?
“Difficile sceglierne una, sono tante le poesie in cui trovo conforto. Forse, pensando al tempo in cui viviamo, scelgo questa: “Se qui c’è la metà del mio cuore, dottore,/ l’altra metà sta in Cina/ nella lunga marcia verso il Fiume Giallo./ E poi ogni mattina, dottore,/ ogni mattina all’alba/il mio cuore lo fucilano in Grecia./ E poi, quando i prigionieri cadono nel sonno/ quando gli ultimi passi si allontanano/ dall’infermeria/ il mio cuore se ne va, dottore,/ se ne va in una vecchia casa di legno, a Istanbul./ E poi sono dieci anni, dottore,/ che non ho niente in mano da offrire al mio popolo/ niente altro che una mela/ una mela rossa, il mio cuore./ È per tutto questo, dottore,/e non per l’arteriosclerosi, per la nicotina, per la prigione,/ che ho quest’angina pectoris./ Guardo la notte attraverso le sbarre/ e malgrado tutti questi muri/che mi pesano sul petto/ il mio cuore batte con la stella più lontana.” Una poesia di Nazim Hikmet, scritta in prigione nel 1948, che mi aiuta a sperare sempre nel cuore dell’umanità. Siamo sottoposti ogni giorno attraverso i mezzi di comunicazione a una grande quantità di informazioni e di immagini di persone che vivono in condizioni disumane e il rischio che corriamo tutti noi che invece viviamo in condizioni di benessere è di non provare più niente di fronte a tutto questo. Mi fa molta paura l’indifferenza e l’assuefazione all’indifferenza. So che possiamo dirci ‘vivi’ solo se manteniamo viva la nostra empatica ‘angina pectoris’, la capacità del nostro cuore di battere insieme al cuore degli altri”.
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Pensando al suo splendido libro “Poesie di luce”, illustrato da Sonia Maria Luce Possentini, vincitore – lo ricordiamo – del Premio Rodari 2015 per la sezione Fiabe e filastrocche, la invito a parlarci della peculiarità dello spettacolo omonimo e del messaggio che vorrebbe potesse essere colto dai piccoli spettatori.
“Lo spettacolo è nato da un’idea di Teresa Porcella, editor del libro e ideatrice e curatrice della collana di poesia ‘Il suono della conchiglia’ di cui fa parte il libro. Il filo conduttore dello spettacolo è la luce, che tiene insieme la poesia, le canzoni, la musica e le immagini. Io do voce alle mie poesie e a piccoli stralci di racconti/ricordi della mia infanzia che contestualizzano le poesie, Teresa Porcella dà voce alle canzoni, scelte dalla tradizione della musica popolare sarda e sudamericana, Gianni Cammilli ci accompagna con la sua luminosa chitarra, Sonia Maria Luce Possentini lascia parlare invece la poesia delle sue meravigliose immagini disegnando dal vivo. Mi piacerebbe che fossero gli spettatori a scoprire qual è il messaggio o quali sono i messaggi del nostro spettacolo, magari nel tempo, magari ritornando a viaggiare nella luce attraverso il libro, tenendolo sul comodino e ritornando a leggerlo ogni tanto, e che lo spettacolo fosse innanzitutto un’occasione per “accendersi” di poesia, restarne in qualche modo contagiati, sorpresi, divertiti, incantati, incuriositi dalle parole, dal loro suono, dal loro ritmo, o dalla poesia senza parole, dalla poesia delle immagini di Sonia. Che i bambini cogliessero che la poesia può aprire all’improvviso una porticina sul mistero del mondo. E che restasse in loro accesa una domanda, come è rimasta accesa in me quando ero bambina: cosa c’è al di là di quella porticina?”.
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Per concludere, la invito a scegliere una sua poesia tratta dal medesimo libro (“Poesie di luce”) per salutare i nostri lettori.
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Scelgo ‘I sogni negli occhi’
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Vorrei entrare nei tuoi occhi spenti
Cercare tra le stanze che non usi
Scoprire se i tuoi sogni sono assenti
O se da qualche parte li hai rinchiusi
Illuminarli un attimo soltanto
Per ricordarti dove li hai nascosti
Se non sapevi più di averli accanto
Se li credevi persi in altri posti
Vorrei vedere gli occhi tuoi sorpresi
E poi scappare via e lasciarli accesi.