Mito e realtà
Siamo soliti parlare del carattere di una persona come del suo tratto psicologico distintivo. La stessa etimologia del termine rispecchia questo semplice truismo: la parola carattere deriva dal greco χαρακτήρ, ossia “impronta”, “marchio”, “segno distintivo”.
Ed ecco che l’individuo è identificato da un segno distintivo, oppure è egli stesso quel segno distintivo; dunque, ha un tratto fisico o psichico (un carattere fisiognomico) che lo definisce, per esempio il brutto naso e la malinconia di Cyrano o la furia e il delirio di Orlando; oppure è egli stesso quel carattere: è un Pulcinella, cioè è buffo e irriverente; è una Venere o una vamp, dunque è una femme fatale; oppure è tedioso come un “malato immaginario”. Pensiamo alle caricature di Leonardo, di Goya o di Daumier e ci troviamo di fronte un essere umano identificato dal suo carattere fisiognomico: nasi e mascelle sproporzionati, sagome affilate e gotte abnormi: il livore, l’invidia, l’avidità, tutto tratteggiato con un semplice gesto di matita o di pennello. Pensiamo ora agli apologhi morali di Fedro o alla commedia dell’arte italiana ed ecco materializzarsi l’individuo stesso come carattere esemplare: la volpe che, come un qualunque invidioso, disdegna l’uva ma solo perché non può raggiungerla; l’avaro Pantalone che invidia la giovinezza e ne viene amaramente beffato.
In questa accezione, il carattere ci appare come un segno distintivo intrinseco, che tende a ripetersi nel tempo e, ripetendosi, a perfezionarsi. Il carattere di Achille è dato in origine, ma quello di Amleto si perfeziona nel corso del dramma; Mozart era un musicista già a cinque anni; Gauguin si è scoperto artista solo in tarda età.
Enunciata così la nozione di carattere è pressoché archetipica: frutto di un’esplosione intuitiva, nasconde la fatica della creazione e tende alla nitida perfezione dell’eternità. Ma c’è un altro modo di considerare il carattere che ci riguarda più da vicino: il carattere come si manifesta nella nostra vita reale, la vita che viviamo ogni giorno: ebbene, nella nostra vita reale il carattere, il nostro carattere personale, esige tempo, talvolta una vita intera per essere portato a maturazione. È il frutto di un lavoro lungo, oscuro e faticoso, e come un prigione michelangiolesco trattenuto dalla pietra, non sempre riusciamo a vederlo e a farlo nascere. Quando la vita finisce, il più delle volte abbiamo la sensazione che l’opera non sia stata completata.
Il più delle volte, la disperazione del morente, se è un individuo di valore, non riguarda la fine della vita, ma il non averla realizzata.
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Il carattere grafico
Andiamo alle origini. Quella di carattere non è, al suo principio, una definizione di stretta pertinenza psicologica. Il termine “carattere” nasce nell’ambito delle arti grafiche, all’interno delle quali definisce lo stile – l’icona, l’immagine grafica – con il quale si compone uno scritto. Il primo nella storia della scrittura europea fu il carattere gotico che fece la sua comparsa con la Bibbia di Gutenberg del 1453-55 cui seguì quello latino adoperato per la prima volta a Subiaco nel 1465. L’invenzione del corsivo (o carattere italico), va attribuita ad Aldo Manuzio, che lo fece disegnare e incidere dal bolognese Francesco Griffi. Nel corso dei secoli, vi fu un’ampia varietà̀ di caratteri perché́ ogni tipografo di fama voleva imprimere un qualche tratto di originalità̀ al grafo utilizzato, affidandosi ad artisti rinomati. Tra i più̀ noti, sono gli elzeviriani o elzeviri, che si dice siano stati disegnati da Cristoforo van Dyck per il tipografo Elzevier di Amsterdam; i bodoniani, incisi e fusi da Giovanni Battista Bodoni che li derivò dal lapidario romano; gli etruschi o a bastone con le aste diritte senza chiaroscuro; l’egiziano, ad asta grassa, con trattini terminali lunghi.
Da quei primi secoli fino a noi c’è stata una gara a lasciare nella memoria del mondo il carattere più originale, più bello, più autorevole… come se il carattere grafico esprimesse in sintesi una visione del mondo ed una personalità.
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Il carattere del guerriero e l’arte della scrittura
In Cina e in Giappone il tratto grafico è legato al movimento dell’intera persona, che compie i suoi gesti secondo i canoni codificati di una raffinata arte della scrittura.
Nella lingua cinese antica il termine shu, che significa “scrittura”, veniva usato nella stessa ampia accezione che noi diamo a termini come pittura, musica o danza. In seguito, venne abbinato a un altro carattere che diede vita al termine composto shufa che significa appunto “arte della scrittura”. In Giappone per la medesima pratica viene usato il termine shodō che, tradotto, assume il significato di “via della scrittura”: da sho – scrittura, e dō – via, percorso.
Nella civiltà giapponese classica, l’acquisizione dell’arte della scrittura era un percorso da compiersi nel tempo, un percorso allo stesso tempo tecnico e spirituale. L’azione del pennello converte in segni le azioni del calligrafo. Questi segni possono essere decisi o incerti, veloci o lenti, sottili o spessi, ma contengono sempre una forza che viene definita ki (traducibile approssimativamente come “energia vitale”), cristallizzata in una tradizione. Nel compiere il gesto e tradurlo in un grafo, l’artista calligrafo trasmette la sua energia vitale al segno e il segno trasmette a sua volta a lui la sua plastica armonia. Si crea così una circolarità fra l’artista e il segno il cui esercizio costante genera una vera e propria disciplina spirituale.
Il guerriero – il samurai – con l’atto dello scrivere educa così il suo scomposto atto di violenza – il suo impulso drammatico – forgiandolo in un gesto armonico e senza errore.
Il carattere psicologico
Dalle arti grafiche il termine carattere è disceso nella biologia (i caratteri delle specie, i caratteri genetici…) e nella psicologia, dove è giunto a definire il complesso delle doti individuali e delle disposizioni psichiche che distinguono una personalità individuale da un’altra. In senso psicologico, il carattere è una Gestalt – una forma compiuta – che deriva dall’incontro delle disposizioni innate con le caratteristiche dell’ambiente (fisico, affettivo, sociale, culturale) e dallo sforzo compiuto dalle prime per creare con le seconde un sinolo, una sintesi, funzionale alla migliore espressione della vita soggettiva – sintesi che, per restare aderente al flusso della vita, resta aperta e non si completa mai. Il carattere psicologico è dunque una struttura, un complesso emotivo e comportamentale dominante – che esige un dominio crescente sui dati della realtà.
È infine nata una scienza, la caratterologia, la cui funzione è quella di individuare e distinguere i caratteri individuali tipici.
a) Il carattere come tipo
Il carattere psicologico è stato concepito innanzitutto all’interno di una teoria dei “tipi”. La più antica trattazione del carattere inteso in questo senso, I caratteri di Teofrasto (scritta fra il quarto e il terzo secolo a. C.), è di fatto un’applicazione dei principi contenuti nella Poetica di Aristotele. Nella Poetica, Aristotele indica come primo elemento-chiave della poesia, come suo «principio e quasi anima», il μῦθος (il mito, la fabula, il motivo dell’azione), e subito dopo, come suo secondo principio, l’ἦθος (il carattere), che manifesta l’inclinazione morale dell’individuo, che è appunto la qualità che distingue le persone le une dalle altre. Teofrasto, riprendendo la distinzione aristotelica fra caratteri “nobili” e “ignobili”, colleziona trenta caratteri della seconda specie, quelli cioè che si ritrovano nella poesia comica e nella commedia. In linea generale, dunque, il carattere alla luce della teoria greca classica è una forza sovrapersonale, anzi impersonale, indipendente dalla volontà soggettiva. In questo senso, il carattere assorbe l’Io, lo cancella entro il proprio tipo. Da qui anche la tipizzazione secondo classi fisiognomiche, nella quale non si fa la storia di quel singolo organismo, ma di qualunque individualità che si risolva nella sua forma anteriore: l’uomo che somiglia al lupo, quello che somiglia alla volpe e l’altro che somiglia al coniglio.
Questa visione di un carattere fisico preformato, quantificabile e influente sul singolo individuo ebbe in Occidente una lunga fortuna, tanto da combinarsi fra l’altro con la credenza magico-religiosa, di origine orientale, di una sua determinazione astrale. Questa credenza accompagna l’Occidente fino alle soglie della modernità e raggiunge il suo splendore nel Rinascimento, come hanno dimostrato le ricerche della scuola di Aby Warburg.
Alla seduzione tipologica non sfuggì nemmeno la psicoanalisi, che pure si presentò da subito come analisi della storia psichica soggettiva.
Tra i più noti contributi psicoanalitici allo studio del carattere basta ricordare di Sigmund Freud Carattere ed erotismo anale (1908), Alcuni tipi di carattere tratti dal lavoro psicoanalitico (1916) e Tipi libidici (1931), in cui il padre della psicoanalisi descrisse i caratteri “orale”, “anale” e “genitale”, determinati secondo lui da fissazioni alle successive fasi dello sviluppo della libido: una classificazione oggi in gran parte abbandonata. Altri contributi nello stesso senso furono quelli di Karl Abraham: Studi psicoanalitici sulla formazione del carattere, del 1925, e di C.G. Jung che per primo, nei Tipi psicologici, sempre del 1925, parlò di atteggiamenti estroversi e introversi. Anticipando di alcuni anni gli studi di Anna Freud (L’Io e i meccanismi di difesa, 1936), Wilhelm Reich concepì la nevrosi non come un conflitto focale ma come alterazione delle difese dell’intera personalità (Analisi del carattere, 1933). Sulla scorta di Reich si poté parlare persino di un carattere psicologico e fisiognomico fascista, serrato in una armatura, o corazza, caratteriale.
b) Il carattere come soggettivazione
Una tradizione opposta e complementare, volta a cogliere nel carattere non già l’elemento generico e quantitativo, bensì quello individuale e qualitativo, è rappresentata dall’analisi morale dei caratteri così come si è espressa nel pensiero antico dell’epoca ellenistica e romana, e in particolare negli stoici, in Seneca e Marco Aurelio – molto ben rappresentata dall’arte statuaria romana – e poi nella ricerca dei grandi moralisti dell’età moderna, letterati e filosofi, da Dante Alighieri a Michel de Montaigne, a William Shakespeare, a Jean de La Bruyère, a François de La Rochefoucauld, a Balzac, Flaubert, Melville, Dostoevskij, Tolstoj.
In un estremo riduzionistico ad uso dei tempi moderni, il critico newyorkese Harold Bloom ha affermato che la psicologia moderna nasce grazie a William Shakespeare e alla sua brillante osservazione dei caratteri umani. L’affermazione mi pare tanto apodittica quanto sbagliata, e testimonia del tradimento che gli Stati Uniti d’America e più genericamente il Patto Atlantico hanno inferto da anni all’Europa e alle sue radici, che sono mediterranee prima che atlantiche. La psicologia moderna non nasce con il pur grandissimo poeta inglese, di cui anche gli americani si fregiano. Nasce piuttosto dalla letteratura greca, dai caratteri umani mirabilmente descritti da Omero nell’Iliade e dai grandi tragici: Eschilo, Sofocle, Euripide, e poi dai latini nella loro letteratura epica e tragica: da Virgilio a Seneca. Personaggi come Achille, Ettore, Priamo, Edipo, Antigone, Oreste, Medea, Anchise, Enea, Didone… sono indimenticabili e costituiscono ciascuno una profonda indagine (del tutto psicologica) su un complesso e problematico carattere umano.
Ma oltre che nella letteratura, l’osservazione psicologica dei caratteri va rintracciata, in epoca classica, nell’arte visuale. Basti pensare non tanto alla statuaria greca, che rappresenta tipi umani molto idealizzati (più simili a dei che a persone, in ottica perfettamente aristotelica), quanto a quella romana. Osservate Lucio Giunio Bruto (545 a.C. circa – 509 a.C.), che fu il fondatore della Repubblica romana, il cui ritratto in bronzo è conservato ai Musei Capitolini. Dal suo volto traspare un carattere non tanto coraggioso, quanto soprattutto astuto, indomabile, amaro. Il coraggio – virtù generica –lo raggiunge di sponda. Secondo la tradizione egli abbatté la monarchia romana per fondare la Repubblica dopo che la sua famiglia subì violenze da parte della famiglia del re. Il volto reca impressi l’amarezza e l’odio per il trauma subito. La scultura, che ha 2.500 anni, è un capolavoro di osservazione “clinica”. E osservate un qualunque ritratto su tavola, sempre romano ma di epoca molto più tarda, già imperiale, fra quelli ritrovati ad Al Fayyum, in Egitto, ritratti funerari fatti per ricordare i parenti morti. In questi volti c’è quasi uno stupore malinconico per la propria morte, uno stupore che suscita commozione e un’attenzione (appunto psicologica) a quell’entità umana che oggi chiamiamo “persona”. In essi l’anima di quegli individui prende vita e aleggia fra di noi grazie al ricordo di quello che fu il loro carattere.
La singolarizzazione del carattere raggiunge in Georg Simmel un apice di partigiana intensità. Secondo lui (Introduzione alle scienze morali, 1892-93), è inutile insistere sulla natura metafisica dell’idea di “carattere intelligibile” perché i soli elementi esistenti e attingibili sono le singole azioni degli individui. Ma è con Michel Foucault che il carattere viene infine afferrato col concetto operativo di soggettivazione. In una sua conferenza sulle tecniche, Foucault enumera e classifica:
«1) le tecniche di produzione grazie alle quali possiamo produrre, trasformare e manipolare gli oggetti; 2) le tecniche dei sistemi di segni, che permettono l’uso dei segni, dei sensi, dei simboli o della significazione ; 3) le tecniche di potere, che determinano la condotta degli individui, li sottomettono a certi fini o alla dominazione, oggettivano il soggetto; 4) le tecniche di sé, che permettono agli individui di effettuare, soli o con l’aiuto di altri, un certo numero di operazioni sul loro corpo e la loro anima, i loro pensieri, le loro condotte, il loro modo di essere; di trasformarsi allo scopo di raggiungere un certo stato di felicità, di purezza, di saggezza, di perfezione o d’immortalità». (Foucault M., 1994, Les techniques de soi, in Dits et écrits II, Gallimard, Paris 2001, p. 1604).
È evidente che, secondo Foucault, gli strumenti che ci assoggettano, cioè che ci alienano da noi stessi, sono i medesimi che possiamo usare per diventare liberi, soggettivando, appunto, la realtà che ci determina. Un buon uso dei suoi maestri e predecessori Nietzsche, Heidegger, Canguilhem e Simondon gli consente di formulare questa preziosa ipotesi.
Ma mentre Heidegger pensa la tecnica solo come “impianto”, cioè come strumento di dominio e alienazione a senso unico, Foucault, alla fine della sua vita, riesce a pensarla come strumento di emancipazione: essa non è solo un dispositivo storico-sociale nelle mani del “potere”, ma è anche e a sua volta generatrice di potere e di storia. La tecnica va dunque indagata come fonte della storia, nella mani di chiunque riesca a possederla. Le tecnologie del sé in particolare detengono una funzione autopoietica che fa progredire il soggetto verso sempre nuove forme di esistenza.
Storia e libertà si intrecciano come non era avvenuto mai. Durante la lezione del 17 marzo Foucault dice: «Fare della propria vita l’oggetto di una tekhne, fare pertanto della propria vita un’opera – un’opera che sia bella e buona […] – implica necessariamente [da parte di chi utilizza la propria tekhne] la libertà e la possibilità di scegliere. Se una tekhne dovesse essere un corpus di regole alle quali fosse necessario sottomettersi […] e non sussistesse appunto tale libertà del soggetto che mette in atto la sua tekhne in funzione dell’obiettivo che si prefigge, o del desiderio e della volontà di realizzare una bella opera, non ci sarebbe perfezione della vita» (Foucault M., 2001, L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France 1981-1982, Feltrinelli, Milano, 2007, p. 379).
Non è un segreto che Foucault debba molto anche al suo maestro di filosofia: Georges Canguilhem. Secondo Canguilhem l’ambiente è il mi-lieu, ossia il luogo mediano in cui si strutturano reciprocamente l’individuo e il contesto. Come in Darwin – anima segreta di tutta la filosofia moderna – per il quale l’animale crea il mondo-habitat al quale adattarsi, per Foucault ogni gesto tecnico è anche una tecnica del sé, perché ogni tecnica mette in azione il circuito individuo-mondo, generatore di storia.
La dimensione storica di questa operazione si palesa ulteriormente nel fatto di essere collettiva. Nell’ottica di Foucault, la soggettivazione non avviene mai in totale solitudine; essa nasce sempre da una segreta mediazione col mondo: «Il servizio spirituale si integra all’interno della rete delle amicizie, proprio come si sviluppava all’interno delle comunità di culto» (Foucault M., ibid., 2007, p. 100).
In sintesi, non v’è alcuna necessità di supporre una sorgente trascendente o trascendentale della creatività, non occorre andare alla ricerca di un dato meta-storico inattingibile, ma al contrario si constata che libertà e creatività sorgono grazie alla relazione con e nella storia: una relazione riflessiva di sé con sé, mediata dalle tecniche del mondo. L’attività creatrice è sempre l’effetto di un rapporto di tipo tecnico che il soggetto intrattiene con sé e con il mondo. L’etopoiesi è qualcosa che deve essere sempre conquistato (tramite uno “sforzo di individuazione”), come uno spazio di autonomia che bisogna far progredire, consapevoli che la tecnica, lungi dall’essere nient’altro che un operatore di assoggettamento, è anche uno strumento di libertà.
Nell’accezione che gli do io, il carattere è la forma che assume nel tempo, scivolando lungo le pendici della storia personale e sociale, la vocazione soggettiva originaria, il “tema” di una vita, l’individuazione, come la chiamano Aristotele e Jung, o l’enteloma, come l’ho chiamato io a partire dal 2013 (Ricordati di rinascere, FrancoAngeli, Milano, 2013). L’enteloma è il progetto intrinseco al DNA psichico individuale, che circostanze fortunate o sfortunate possono favorire o inibire e danneggiare. Esso manifesta le sue potenzialità nel rapporto conscio o inconscio con la storia entro la quale è nato, cristallizzandosi in un tema grazie a un’intuizione primaria. Esso individua e produce il suo futuro grazie ad una rilettura (una risignificazione) costante del passato.
La prima cosa che osservo quando ricevo un paziente per la prima volta è il suo volto, la sua prossemica, e le posture del suo corpo, i suoi moti, il suo modo di stare in una stanza e di relazionarsi con me; poi come lui si racconta. La consuetudine umanistica aumenta la riflessività, allena l’empatia, consente la conoscenza intuitiva. Al di là della letteralità del suo “tipo” umano, cerco la cifra del suo carattere, nella certezza che egli lo abbia inibito o frantumato nella patologia lasciandolo irrisolto, oppure lo abbia accuratamente nascosto.
Che la cultura umanistica sia ricerca di senso, quindi del carattere dell’uomo è evidente da qualche comparazione. Un po’ di storia della formazione culturale dei grandi psicopatologi moderni lo confermerà: Freud era un appassionato lettore tanto di Shakespeare quanto di Sofocle, Jung spaziava da Jakob Boeme a Goethe ma i suoi concetti più importanti sono tratti da Aristotele e Platone, Jaspers aveva una padronanza totale della cultura greca sia filosofica che letteraria, Lacan conosceva i tragici greci tanto quanto sant’Agostino e Heidegger, e Hillman ha fondato la sua Psicologia archetipica sulla conoscenza dell’Ellenismo e del Rinascimento.
Il carattere dell’artista
Quando pensiamo ad un artista, di solito usiamo il termine “stile”: lo stile di Giotto, Leonardo, Van Gogh, Picasso, Bacon; lo stile di Cicerone, Voltaire, Flaubert, D’Annunzio, Celine, Pound. Lo stylos era per i latini uno strumento a punta creato per incidere; in italiano lo stilo divenne anche il pugnale maneggevole e sottile, un’arma di aggressione e di difesa: il sentimento della lotta permea di sé il vecchio significante, rendendolo più profondo. Nondimeno, nell’uso corrente il termine stile indica il tratto formale distintivo di un’epoca, di una corrente artistica, di un individuo e nell’usarlo facciamo una scelta volutamente superficiale. Applicandolo agli autori li distinguiamo per la forma in cui essi hanno redatto i loro scritti o modellato i loro manufatti. Ma in questo modo li imprigioniamo in una gabbia concettuale e per di più sminuiamo lo sforzo implacabile, dannato, che essi hanno compiuto per forgiare la loro opera. Sotto la categoria dello stile riappaiono le vecchie arti della tipizzazione: forme generiche che conglobano e annullano le differenze individuali.
Quanto sarebbe più utile, anche in questo caso, la nozione di carattere! Allora potremmo dedurre dalle opere il carattere degli autori e cogliere con una sola presa di mano l’orgoglio di Dante e Michelangelo e l’inafferrabilità di Leonardo o di Shakespeare; la disperazione di Leopardi e Van Gogh e l’edonismo estatico di D’Annunzio, sotteso alla sua tanto decantata posa da superuomo, il cinismo amaro di Celine, che piange sulla condizione umana mostrando di disprezzarla, la commozione disperata di Caravaggio o di Francis Bacon, che coinvolgono la propria vita concreta, anche fisica, nell’atto della conoscenza tragica. Coglieremmo così il carattere dell’artista, che ne racconta l’arte molto meglio di quanto non faccia il suo stile.
Allora ci sarebbe più chiaro il senso unitario dell’opera, perché quella del carattere è un’intuizione sintetica dell’esperienza vissuta e descrive tanto bene un essere umano quanto un luogo, un paesaggio, una città: tutto ciò che ha che fare con la storia umana, con il suo instancabile lavorio, con il tempo necessario a rivelarne la sua essenza. Molto più che dalla nozione di stile è da quella di carattere che deduciamo la spiritualità di un individuo, il modo come egli ha composto le sue sensibilità innate, le sue esperienze, i suoi traumi, il suo pathos, in una forma che li accoglie tutti e li esprime in un’azione concorde. Avvieremmo così una nuova critica estetica, bella come la stessa espressione artistica di cui si occupa.