parola d’autore
La prima volta che mi sono detta mi piacerebbe scrivere è stato a quindici anni. In realtà avrei preferito dipingere, ma ero una tale schiappa col figurativo che non ci avevo nemmeno provato. Scrivere è più facile, avevo pensato, non c’è da far altro che mettere una parola in fila all’altra e dargli un senso. Così avevo buttato giù un racconto fantasy ambientato sulla Meseta spagnola. Facilissimo, mi ero detta, non devo neppure preoccuparmi di essere fedele al reale. Alla fine l’avevo riletto e senza chiedere il parere di nessuno, gli avevo dato fuoco. Me ne ero talmente vergognata da giurare a me stessa «Mai più!».
Fino a che vent’anni dopo, all’indirizzo di una casa di produzione cinematografica con la quale collaboravo, non era arrivato un invito a partecipare a un concorso multimediale. Era rivolto a me personalmente e mi proponeva di girare un video, scattare delle foto o scrivere un racconto per questa competizione dal titolo Storie senza quartiere. Perché l’avessero inviato a me è un mistero che non ho ancora risolto. Probabilmente un errore. Sta di fatto che io, che come i Sioux credo nei segni, l’avevo considerato un indizio del destino e avevo scelto il settore racconti. Avevo vergato le cinque cartelle richieste ed ero partita per Venezia dove mi aspettava l’inizio delle riprese di un film di Wim Wenders. Fino alla fine del mondo. A quel tempo lavoravo nel settore organizzativo della produzione cinematografica. Abitavo a Torino, ma ogni volta che venivo arruolata per un nuovo film, facevo le valigie e andavo. A quel concorso avevo poi vinto il primo premio. Ne ero stata contenta, ma l’educazione e l’ambiente nel quale ero cresciuta mi avevano impedito di considerarlo poco più di una perdita di tempo. In realtà non desideravo altro che scrivere, ma di accettarlo e confessarlo non se ne parlava. Per dirla tutta, mi imbarazzava a morte. Non capivo perché ci tenessi tanto e ogni volta che mi ci mettevo non potevo evitare di sentirmi fulminata dalle opere dei grandi che occhieggiavano dalla libreria. Non che adesso sia cambiato qualcosa, ma ho traslocato e la libreria è in un’altra stanza. Ad ogni modo passavano gli anni. Quello che scrivevo non mi piaceva mai e lo facevo a pezzi. Fino a che, durante la realizzazione di un documentario in Sud Dakota, nella riserva Sioux di Pine Ridge, non avevo preso a stilare un diario di bordo. Utile per la catalogazione del girato, mi ero detta. Invece, tornata a casa, lo avevo elaborato in segreto, stampato e inviato a una editor milanese. La quale dopo due mesi mi telefona e mi dice il suo lavoro mi è piaciuto molto e lo voglio proporre per la pubblicazione. In quattro e quattr’otto mi fa firmare un contratto con l’agente di cui era socia e mi dice di aspettare. Aspetta che ti aspetta, nessun editore voleva quel mio capolavoro. Parlava di indiani, di un viaggio tra le riserve, della loro vita disgraziata dopo secoli di sfruttamento, della loro spiritualità, della rinascita delle tradizioni, delle rivolte e dell’orgoglio ritrovato. Roba di nicchia, dicevano gli editori. Nel frattempo ero stata assorbita dal montaggio del documentario e il libro non l’avevo più seguito. Poi una sera, mentre io stavo non so dove, mio marito a cena da amici incontra Marino Magliani di passaggio dall’Olanda. Parlano della mia vicenda e lui dice passalo a me quel dattiloscritto, lo trovo io un editore. Lo aveva proposto a Giulio Milani di Transeuropa e il libro era uscito a dicembre del 2009. Amici, conoscenti e parenti erano caduti dal pero. Un libro? Ma scrivi? E da quando?
Vendite poche, così avevo chiesto a Milani: ma cosa bisogna scrivere per essere letti? Libri gialli o di sesso, aveva risposto lui. I gialli non li so scrivere, gli avevo detto, ma col sesso ci posso provare. Ne era nato Seventy sex, la storia di una adolescente alle prime armi che tra sbandamenti e pasticci, sperimenta la vita. Mentre io, etichettata all’istante come scrittrice erotica, mi domandavo ma perché Bukowski o Henry Miller che descrivono le peggio acrobazie sessuali sono ritenuti scrittori e basta, mentre Anais Nin la definiscono erotica? Cos’è questa storia? Non l’ho ancora capito.
Comunque ho scritto un altro romanzo. Seconda stella a destra, pubblicato da Ad est dell’equatore e in libreria in questi giorni. La protagonista, una ragazza affamata di libertà, indipendenza e vida loca, studia a Venezia negli anni Ottanta. Abbandona l’università, lascia l’Italia per costruirsi un futuro nuovo e lo va picarescamente a fare all’altro capo del mondo. Un po’ come i ragazzi di oggi, con la differenza che adesso ci sono costretti mentre allora era una scelta.
E così, grazie a lei e ai racconti per alcune antologie e blog letterari, sono arrivata ad accettare la scrittura come una parte di me. A considerare i grandi come maestri e pensare che insomma, scrivere dopo di loro non è forse un delitto che dopo morta mi porterà all’inferno. Forse.