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l’editore racconta

Quando è nata la Di Felice Edizioni nel 2010 avevo 26 anni. La “giovane età” non mi ha aiutata molto. Alcuni autori, colpiti dalla validità del progetto editoriale, mi contattavano con l’intenzione di pubblicare con la mia casa editrice. Ma quando, durante il colloquio, scoprivano che ero un editore molto giovane, notavo un cambiamento della loro espressione sul volto e la loro diffidenza. Ricordo che un giorno una signora mi volle incontrare per conoscermi, mi portò un suo libro perché voleva rieditarlo, ma appena vide che ero più giovane di sua figlia mi disse: «Volevo farle leggere il mio libro ma ne ho poche copie e preferisco farlo valutare da un altro editore un po’ più grande…». Ci rimasi malissimo, ora invece ricordo quell’episodio con molta ironia.

Qual è la vostra linea editoriale e in quale direzione si muove?

La casa editrice è nata con una forte vocazione alla poesia e successivamente si è aperta ad altri generi letterari, ma la linea ideale che lega tutte le pubblicazioni è la capacità dell’autore di rinnovare in modo efficace e compiuto il rapporto tra linguaggio e realtà. In particolare la casa editrice accoglie pubblicazioni che hanno a che fare con il mondo arabo, nel tentativo di aiutare il lettore a orientarsi e meglio conoscere un mondo “altro” che purtroppo percepiamo come monolitico, senza eccezioni.

Quali (attualmente) le vostre ‘collane’?

In attivo sei collane. Al di là di due collane generiche di poesia e narrativa, ce ne sono quattro che condivido con i rispettivi direttori. In particolare, mi riferisco alla collana di narrativa dedicata alla mediterraneità “Gli occhi del pavone” diretta da Rita El Khayat; la collana di poesia “Il gabbiere” diretta da Sante De Pasquale; la collana di arte “Fili d’erba” diretta da Alessandra Angelucci e la collana “Professionals” diretta da Antonio Pelino e Antonella Mattiucci.

Viviamo nell’epoca delle facili pubblicazioni, in che modo un editore può salvaguardare l’autenticità della cultura e degli scritti che pubblica?

Scegliendo. Avvalendosi di una libertà che non è fine a se stessa, ma che è sempre orientata ad aggiungere un tassello raro – che porta in sé le tracce della originalità e originarietà – nel panorama culturale. E credendoci, salvaguardando l’entusiasmo di chi ha chiaro il valore delle proprie motivazioni.  

Pro e contro dell’ebook.

Pro: sono più economici, ecologici, i caratteri si possono ingrandire, permettono di risparmiare spazio e peso se si viaggia e si ha l’abitudine di leggere molti libri. Contro: da alcune ricerche sembra che l’ebook sia meno efficace rispetto al libro cartaceo sui processi di apprendimento e che contribuisca a una maggiore spersonalizzazione del rapporto lettore-libro.

Pensando alla vostra attenzione alla poesia, domandiamo in che modo è possibile riconoscere un vero poeta e, conseguentemente, selezionarlo per la pubblicazione?

Nella poesia è difficile avere dei criteri oggettivi di valutazione, ma credo che, indipendentemente dallo stile del poeta, deve evincersi l’autenticità dell’istanza creativa, che si esprime attraverso la ricerca, la fede nel valore della scoperta e della conquista di nuovi spazi di esplorazione attraverso la parola.

Quando valuto un’opera lo faccio sempre non nei panni di un editore ma di un lettore… non di un lettore qualunque, un lettore che abbia gli strumenti culturali per diventare parte integrante di un circuito creativo che va a chiudere il cerchio attraverso la interpretazione della scrittura poetica. Questo implica una scelta forse troppo “aristocratica” – intellettualistica o spirituale che sia – un po’ elitaria ma sicuramente attenta e consapevole della responsabilità culturale del “prodotto” editoriale e non solo del suo aspetto commerciale.

Oggigiorno in che modo è possibile avvicinare i lettori alla poesia?

Evitando il “presenzialismo narcisistico” e la poesia vissuta in modo autoreferenziale come forma di “successo personale” o di ascesa sociale. Mi spiego meglio: purtroppo oggi – grazie anche al web e a una maggiore facilità di pubblicazione – assistiamo alla proliferazione di autori che scrivono versi autodefinendosi poeti e pretendendo di imporre la propria creazione a un pubblico indifferenziato di lettori, facendo leva sulla grossolanità e il qualunquismo. Questo non fa altro che confondere e allontanare i lettori da un orizzonte che abbia validità letteraria, vale a dire la sintesi tra intuizione e ricerca, necessità e desiderio, ispirazione e talento. Vi siete mai chiesti perché in Italia tutti scrivono poesia e nessuno la legge? Ciò che sembra un’anomalia, un paradosso, in realtà è il frutto di una istanza autoriale che non ha nulla a che fare con il credo poetico. La poesia è una strada difficile, un percorso che richiede dedizione, disciplina e coraggio. Purtroppo molti confondono l’istinto con l’intuizione e lo sfogo con l’emozione.  Il “vero poeta” è colui che riesce a infondere nella parola una visione, che sia l’esito di una militanza consapevole. Il poeta è colui che porge orecchio al fremere dei vetri, per dirla con dei versi di Mario Luzi, rendendo la propria sensibilità filigrana che impreziosisce la materia porosa della realtà attingendo dalla propria esperienza e trasformandola in sostanza universale. Lo sfogo poetico – a scopi esclusivamente terapeutici – e l’esaltazione delle vicende private (in primis quelle amorose) sono solipsismi gratuiti che non interessano a nessuno. 

Quali (e per quali ragioni) reputate essere – tra i vostri – i libri più interessanti già editi?

Ogni libro ha una peculiarità e anche una incidenza nel dibattito culturale. Mi vengono in mente tra le ultime pubblicazioni il romanzo “C’è una stessa notte per tutti” della scrittrice di lingua francese Lamia Berrada-Berca, magistralmente tradotto da Antonella Perlino, che è una vera e propria denuncia contro ogni forma di dittatura oppure “Post-it” della giornalista e docente Alessandra Angelucci, una raccolta di 30 articoli usciti per il quotidiano «La Città» e 30 fotografie di Marco Ciampani, che apre il dibattito culturale su riflessioni e tematiche molto attuali nel mondo della scuola. Un percorso particolare è racchiuso nel libro “Aini, amore mio. La defigliazione” di Rita El Khayat – una delle intellettuali e scrittrici più accreditate soprattutto nel panorama arabo – attraverso il quale si conia un termine – che è stato ben accolto dalla critica nazionale – per indicare la condizione di un genitore che ha perso un figlio, defigliazione appunto.

 

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