Per i tipi di Crocetti è stato riedito il volume antologico comprensivo delle poesie di Tomas Tranströmer, Premio Nobel 2011 per la letteratura, con la curatela di Maria Cristina Lombardi, “Poesia dal silenzio”. Il silenzio si configura come una postura attraverso cui l’io poetante amplifica la propria esperienza percettiva: in Tranströmer, come nota in prefazione Lombardi, si scorge un atteggiamento verso la vita e il mondo alla base del quale è l’intuizione fulminea a tentare il superamento della “tenebra dell’esistenza”. Lo sguardo immobilizza il flusso delle cose, come per svelare le dimensioni nascoste del reale e suggerire associazioni mistiche:
Sotto il quieto punto volteggiante della poiana
Avanza rotolando il mare fragoroso nella luce,
mastica ciecamente il suo morso di alga e soffia
schiuma sulla riva.
La terra è celata dalle tenebre frugate dai pipistrelli.
La poiana si ferma e diventa una stella.
Il mare avanza rotolando fragoroso e soffia
schiuma sulla riva.
La poiana diviene figura metamorfica. L’interesse del poeta è nel fissare in sequenza i momenti nei quali le cose di cui pullula il cosmo trovano una connessione proprio quando stanno dissolvendosi per divenire altro. Mentre la terra s’adombra, gelata dalle tenebre, il mare in movimento sembra compartecipe di questa transizione. Oscure divinità primordiali brancolano nel buio marino:
L’albero della luna è marcito e si sgualcisce la vela.
Il gabbiano volteggia ebbro lontano sulle acque.
È carbonizzato il greve quadrato del ponte. La sterpaglia
soccombe all’oscurità.
Fuori sulla scala. L’alba batte e ribatte sui
cancelli granitici del mare e il sole crepita
vicino al mondo. Semiasfissiate divinità estive
brancolano nei vapori marini.
Le coordinate spazio-temporali entro cui confluisce la visione risultano dal fondersi della sera con le prime luci del mattino. Il mare appare quale custode di un aldilà i cui segni si danno al mondo per mezzo del crepitio solare all’orizzonte. La poesia di Tranströmer appare così pregna di un’influenza filosofico-religiosa di non secondaria importanza, in particolare se la si correla all’esperienza mistica occidentale cristiana di Meister Eckhart o dei maestri renani del medioevo. E tuttavia, osserva Lombardi:
Aleggia di frequente in queste liriche la sensazione di essere visti e controllati da poteri o da presenze invisibili, in particolare nei testi che descrivono le esperienze nei Paesi dell’Est
Il paesaggio stesso si anima, colto in un eterno bagliore che deve lasciare presagire al lettore la possibilità di un varco tra veglia e sogno:
[…]
Sdraiato mi sforzo di dormire, vedo immagini sconosciute
e segni che si annotano da soli dietro le palpebre
sulla parete del buio. Nella fessura tra veglia e sogno
una grande lettera cerca di infilarsi invano.
Il poeta si accosta al mondo come se questo gli squadernasse davanti il proprio linguaggio misterioso e imperscrutabile. Ogni cosa si vivifica perché prende parola:
La tempesta poggia la sua bocca alla casa
E soffia per emettere un suono.
Dormo inquieto, mi giro, leggo
Il testo della tempesta assopita
Ma gli occhi del bambino sono spalancati al buio
E il temporale mugola per lui.
Entrambi amano le lampade che dondolano.
Entrambi sono a metà strada dal linguaggio.
La tempesta ha mani infantili e ali.
La carovana si lancia verso la Lapponia.
E la casa avverte la sua costellazione di chiodi
Che tiene insieme le pareti.
[…]
Sul mondo passa una più grave tempesta.
Poggia la sua bocca alla nostra anima
e soffia per emettere un suono – temiamo
che la tempesta soffiando ci svuoti.
La luce adempie quasi alla funzione di un portale per mezzo del quale tempo e spazio dialogano tra loro e si sovrappongono. Si ha talvolta la sensazione che l’arte sia il luogo deputato all’esperienza dell’Intero, come potrebbe suggerire Dewey:
[… ]
Da una porta sul retro del paesaggio
arriva la gazza
bianca e nera. L’uccello dell’Intero.
E il merlo si muove a zig-zag
Finché tutto diventa un disegno a carboncino,
tranne i vestiti bianchi sul filo del bucato:
un coro di Palestrina.
Non ci sono qui spazi vuoti.
Stupendo sentire come la mia poesia cresce
mentre io mi ritiro.
Cresce, prende il mio posto.
Si fa largo a spinte.
Mi toglie di mezzo.
La poesia è pronta.
Gli uccelli sono un ponte tra la terra e il cielo. L’occhio non registra spazi vuoti perché tutto è permeato da movimenti minuti e impercettibili che innervano il cosmo e poco per volta dissolvono ciò che si appresta a trasformarsi. Ogni lasso di tempo è scandito dal silenzio al punto che fine e principio divengono indistinguibili. L’esperienza della morte è pertanto esperienza cosmologica di metamorfosi e mutamento:
Qui fui sul punto di morire una sera di febbraio.
La macchina scivolò sul ghiaccio e finì
nella corsia opposta. Le auto che sopraggiungevano,
i loro fari si avvicinarono.
Il mio nome, le ragazze, il lavoro
lontanissimi si sciolsero e rimase
soltanto il silenzio. Ero anonimo
come un ragazzo nel cortile della scuola circondato da
nemici.
[… ]
Allora si presentò un appiglio: un caritatevole granello
di sabbia
o una meravigliosa raffica di vento. La macchina si staccò
e attraversò obliqua la strada.
Un palo spuntò e si spezzò – un rumore secco-
e volò via per le tenebre.
Finché fu il silenzio. Rimasi seduto al volante.
Poi vidi qualcuno arrivare attraverso il nevischio
a vedere cosa mi era successo.
Il timore della morte presenta al poeta le cose per come sono, ovvero in continua dissolvenza. Questo gli rende difficile l’opera di traduzione e comprensione del reale, poiché se ne ha un’esperienza sempre parziale e mai del tutto completa. Ciò che si presta a svanire, vede sfumare la propria immagine, investita da un’energia ancestrale:
Vento di ghiaccio contro gli occhi e i soli danzano
nel caleidoscopio delle lacrime quando incrocio
la strada che mi ha seguito così a lungo, la strada
dove l’estate groenlandese brilla dalle pozzanghere.
Intorno a me sprigiona tutta la sua energia,
la strada che nulla ricorda e nulla vuole.
Nella terra, sotto il traffico, aspetta
il bosco non nato, immobile da mille anni.
Ho idea che la strada mi veda.
Il suo sguardo è così cupo che il sole stesso
diviene un gomitolo grigio in uno spazio nero.
Ma proprio ora mi illumino! La strada mi vede.
Tanti i rimandi all’interno di quest’ultima lirica, primo fra tutti Bergson. La strada come un gomitolo nel quale il tempo e lo spazio si raccolgono. La strada come un occhio cupo nel quale risplende lo specchio della propria esistenza. Essa è allora immagine non solo di ciò che è accaduto, ma anche dell’incompiuto e di ciò che è destinato a essere o a non compiersi lungo gli interstizi tra l’essere e il nulla:
Nei mesi oscuri la mia vita scintillava
solo quando ti amavo.
Come la lucciola si accende e si spegne, si accende e si spegne,
– dai bagliori si può seguire il suo cammino
nel buio della notte tra gli ulivi.
Nei mesi oscuri l’anima stava rannicchiata
e senza vita
ma il corpo veniva dritto verso di te.
Il cielo notturno mugghiava.
Furtivi mungevamo il cosmo e siamo sopravvissuti.