Io le recensioni troppo critiche non sono mai stato bravo a scriverle. Quelle che devi metterti lì a confrontare, fare ricerche e analisi testuali e retoriche. Purtroppo mi si spegne l’anima troppo presto. E torno subito a quelle tutte d’un fiato. Quando la mano ti trema più del cuore, sui tasti. Perché sai che stai facendo qualcosa d’importante, di dovuto, d’imperdonabile.
Tua e di tutti esce per LietoColle nel 2014 nella collana gialla di Pordenonelegge. È la seconda raccolta di Tommaso Di Dio e segue l’acclamato Favole, edito nel 2009 da Transeuropa. Esaurita questa parte informativa, possiamo tornare alla poesia. Che è grande e non sappiamo cosa sia. E che qui è quella cosa che avresti tanto ma tanto voluto scrivere tu, ma non l’hai fatto. Perché ti è mancato forse lo spirito, forse i nervi, più probabilmente tutto il resto.
Versi che avrebbero potuto essere tuoi. E invece sono frutto del genio di qualcun altro. E allora applausi. A spaccare la pelle delle dita. A lui che ti ha fatto brillare lo sguardo, come si fa con le bombe da disinnescare.
Io, le recensioni troppo critiche, non sono bravo a scriverle. Ma qui non avrei potuto neanche a sforzarmi. Perché questa raccolta è entrata troppo in fondo, troppo in fretta, già dalla prima sezione, dalle prime poesie.
Tutto questo non possiamo noi dimenticare
una volta cominciata questa impresa.
Il giovane ragazzo down
distribuisce i giornali. Tutte le mattine
non li vende non li compra
sotto la pensilina. Quando piove.
Quando c’è il sole. Tiene conto
dei minuti che mancano, perché arrivi
il pullman che ti scacci nella città
verso un lavoro altrove. Ha trovato
il suo compito; la sua fatica, il suo posto
senza prezzo né guadagno. Prendi
il giornale che ti porge; guardalo.
Anche lui, mentre mette in opera il mondo
sorride
in nome di nessuno.
Già da qui. Dall’attacco. Dal pezzo che apre la prima delle sette sezioni, Una volta cominciata questa impresa. Un biglietto da visita che segna subito il passo, ci lascia intendere cosa dobbiamo aspettarci; una poesia impegnata, fisica, concentrata, necessaria, incontenibile. Poesia che non è nata per caso, che non è possibilità tra le altre. Figlia di un corpo a corpo combattuto contro l’esperienza, contro le cose, prima ancora che contro la lingua. Una poesia che si trascina (nel)la realtà quotidiana, che è fatta delle nostre giornate, delle nostre esitazioni, della nostra Italia sfatta e piccola, della nostra paura. Che beve dalla brocca della cronaca, ma senza mai ammiccare, senza scorciatoie. Che ci appartiene. Che è nostra, e tua, e di tutti. Che non ha paura di usare la seconda persona, già dal possessivo del titolo (preso da un verso presente nella seconda sezione), di puntare il dito, guardare negli occhi, chiamarci in causa, inchiodarci al nostro obbligo di essere presenti. E tenderci una mano.
Si sente nell’uso della lingua, nella nettezza delle strofe, nell’essenzialità del verso, l’influsso di Mario Bendetti, maestro e amico di Tommaso Di Dio. Ed è una presenza che dà spessore e profondità. Che infonde il bisogno immane della scrittura e forse di salvezza. (E ogni mondo/ a cui hai creduto come cosa salda e vera/ è già di altri negli altri corpi/ come una bufera che non riconosci più; che non riesci/ ad amare più).
Purtroppo però io di recensioni troppo precise non so scriverne e non riesco a perdere tempo per entrare nel vivo del fatto poetico. O forse non ci riesco in questo caso. Quindi lasciamo stare. Prendiamo il pezzo che state leggendo per quello che è: un consiglio di lettura. Forse anche troppo accalorato.
Un invito aperto a leggere Tua e di tutti; per la possente fragilità che possiede, per la sua durezza sottile, per la brillantezza, per il rigore e la compattezza. Per la spietatezza (e sembra tutto catrame/ questo tempo, senza rimedio/ senza soccorso). Perché fa male alle mani e al petto e quel male corrobora. Perché è una raccolta che abbraccia e custodisce, ma che nei momenti inaspettati, negli attimi di distrazione, ti punta contro come un fuso, scende dritta al fondo delle cose, senza tremare, senza pietà (Tutto questo/ essere stati non basta/ bisogna ripetere tutto, capitolare./ Bisogna pagare).
Leggetela, perché è un ottimo punto di partenza. O forse è già l’approdo.
Forse bisogna chiudere gli occhi
aspettare che il colpo cada
di traverso e spacchi
la veglia come al fondo del ramo ora s’apre
il boccio più caro alla stagione. Milano
le case le strade; la sera, lo sgorgo
alla curva verso dove i passi non più
sono veri. E penso a quell’arabo
giovane e fermo negli stretti suoi jeans
le scarpe splendenti della
fibbia d’oro in via Vitruvio ad aspettare
la grazia da qualche parte come me, la grazia
di qualche animale che come me
abbia fame.