Jenny Gray Art. bike ride through dream city at night. MONTANARI
Jenny Gray Art. bike ride through dream city at night

inediti in anteprima

9 sezioni contenenti ognuna 9 poesie, tutte di 9 versi. Numero della continua rigenerazione, della reincarnazione. La perfezione al quadrato. Simbolo di compimento, archetipo del femminile, della terra. I gironi infernali e le sfere celesti. Novembre. Gli alti e i bassi. La mobilità.
Stazioni, binari, sale d’attesa, aeroporti, autobus, metropolitane. Luoghi d’incontro/scontro, di ritrovi e perdite, di strappi che solo le parole – annotate su riviste, libri, biglietti e carte d’imbarco – tentano di ricucire in un viaggio lungo quanto l’attesa di un abbraccio. Arrivi e partenze cicliche che invocano la pace di una fermata prolungata, di uno stop.
Si chiudono da sé le porte che separano carrozze, scompartimenti e relazioni. Non sempre in automatico, però. Le dita restano nel mezzo più spesso di quanto si pensi. Solo quando un rassicurante pulsante sostituisce l’arcaica ma fascinosa maniglia, i vagoni davanti e quelli dietro non sono più spazi scomodi da attraversare.

0:1
plani come uno stormo di grandine, l’antartico nel ricevitore.
deglutiti i prossimi cent’anni nello spazio di due grumi di saliva,
spalancate le ultime riserve di baldanza, spostato il sugo dal fornello
resto l’amante che muore sul palco mentre inscena l’amica.
finché, stanotte, io mossa, tu levigato cuoio di carruba, ti svesti del ghiaccio
e mi sali in spalla col peso dell’inverno smistato tra albergo e locomotore.
dico, ma la conosci la sorte del vento? li succhi gli oleandri, tu?
lasciami la pagina pulita di un quaderno senza spessore,
scrivici solo se te lo detta l’involontario. muscolo ora ingordo di letargo.

0:2
sui binari mi appaiono vagoni carichi di tutti i graffi del mondo
stipati contro le assi del tempo, cartilagine di ore e giorni obliterati con diligenza.
fuori nevica inerzia e il meteo prevede quel che già sapevamo da morti,
ma il ragazzino ruota sui suoi tacchi da lavoro, il taccuino conficcato nella coscienza.
sembra un vecchio cresciuto in serra, gonfio di giovinezza modificata
avrà i tuoi anni, o forse i miei e un girasole con cui indorare le rotaie.
i viaggiatori non sospettano che in bocca abbia ancora il suo zenzero
spruzzato in cabina di guida a un ritmo di macchina che fende la notte.
non lo pulisco, voglio tutte le gocce del dio che mi ha istillato.

0:3
stanotte le rotaie hanno indossato neve come un presagio di nozze,
i binari si sono arresi e il frecciarossa ha rinunciato al paso doble dei ritorni.
sotto il cappello eri azzurro, appena sfornato dall’attesa dei bruchi,
sapevi di sandalo e opossum e la tua spalla liscia parlava il dialetto dei déjà vu.
io avevo in serbo mutande a sufficienza per me e venere
e con l’abbandono stipato sulle labbra ho messo la notte in mano all’incanto.
ti ricordavo così, più morbido di un abbraccio, capace di diventare mantello
la casa fedele, il fiume in corsa col gelo e l’islam, i vuoti da non perdere.
abbiamo avuto il nostro terzo giorno e del sudario si è persa la traccia.

0:4
mi sa che stasera gongolo, con la densità di una nana a corto d’arti,
vedo in fondo al cannone l’oblò della nave a cui daremo fiato
e, ancora più in là, un cortile galleggiante e gatti a guardia di noi che rimiamo.
hai mani per scolpire un sorriso al legno, legno spiaggiato dopo la gara col sale,
io uso i denti per ritagliarci una di quelle sere grigie fuori e odorose dentro.
attento a non bruciare ali, ali di pollo e pelle d’alluminio, attento a noi
che ci scottiamo facilmente. ci serve ovatta, e cera, fiori di cera per cena.
ora mi stendo così mi annusi, là dove la sterpaglia si è fatta serra
e il tuo seme vi sguazza come un bambino rapito dal piacere del fango.

0:5
sai quella rabbia letargica che prude sotto la pelle come un sisma,
quella dei pecorai mongoli per i lupi d’argento della steppa,
la stessa che indossiamo quando la mano tasta il cuscino a vuoto.
la sai. ma la cagna non avrà il mio osso, inamidato a fatica sull’asse guasto,
non cederò alle moine della lava né alle pastosità della bile grassa.
resto con un pugno di lucciole in mano, effimere schegge di noi che ci spegniamo
odorando di tiglio ferroviario e di mensa da dopolavoro immaginario.
urgono vestiti nuovi per l’imperatrice detronata, tessuti senza trame
e cartamodelli per il guardaroba dell’estate nordica che verrà.

0:6
per un destino deragliato ci si ritrova a imbustare piastrine di sangue donato,
ritagli di prospettive esotiche e vasi di fiori miracolati da un pollice celeste,
a stipare la gioia nei bagagliai brulicanti di sole e pane senza denti,
con mani viola di livore e baci ingabbiati dal ritegno.
il viaggio porta con sé puzzle incompleti, cani mai adottati, ex voto, sfiati
e la strada è così lunga da sembrare l’alito di un creatore di mondi alati.
ti conservo tra gli organi vitali, tra le foto stampate nell’esistenza tutta.
ora so la generosità di un buongiorno augurato per primi e mi sorrido con affetto.
dimentica il futuro, mi dico. guarda, albeggia.

Potrebbero interessarti