Versi amici diversi verso la rima (Daniela Pericone e Alessandro Quattrone)

  1. In guisa di introduzione

    Cosa hanno in comune Daniela Pericone e Alessandro Quattrone, a parte il talento e la provenienza geografica, dove per comune intendo da un punto di vista poetico? La rima, certamente, due settenari onomastici perfetti. Se guardiamo alla loro produzione – e più particolarmente alle due ultime raccolte uscite in autunno, La dimora insonne e La rondine presente (i libri buoni come la bellezza di una foglia che cade, o come il buon vino che esce dalle vendemmie) – ci troviamo subito d’accordo sul fatto che sono agli antipodi per quanto riguarda il declinare versi. Forse condividono un’identica passione per Rilke, Dickinson, Szymborska, Brodskij, o magari Montale, Sereni, ma le loro liriche, messe una di fronte all’altra, fanno pensare ad una specie di ossimoro: una chiarezza oscura o un’astrusità chiara. Un esempio acclarato, per mostrare la differenza tra i due poeti, potrebbe essere uno stesso tema come la parola fantasma. Scrive Daniela:

 

Schiudo la mano

che ripara, provo a salvare

un nome che dica durata –

m’incurvo al suono che sale

da dentro, m’incavo nel punto

dove muta appena – rivado

dai tuoi occhi ai miei fantasmi

che hanno vene, esigono

vertebre, di me fanno

quel che non voglio

e ottengo quel che

non chiedo – disarmo

l’offesa, a filo di spada

il perdono.[1]

 

 Ribatte Alessandro:

 

Un fantasma è necessario,

un personaggio che va e ritorna

con la sua trasparenza intoccabile,

qualcuno che ci visiti

quando alloggiamo nella solitudine

come in un vecchio albergo

e ce ne stiamo alla finestra per distrarci

evitando di pensare che un fantasma

spesso è necessario

più di una persona in carne e ossa. [2]

 

I fantasmi non vengono vissuti nello stesso modo, disforici in Pericone, più euforici in Quattrone. Anche la lingua si differenzia. Mentre per Daniela il discorso sembra chiudersi al punto finale della lirica, per Alessandro il tema continuerà nella pagina successiva: “I fantasmi che ci fanno compagnia…”[3]. Fantasmi offensivi in una, protettori nell’altro. Possiamo ritrovare questa antitesi anche nell’intreccio dei versi, più scorrevoli quelli di Quattrone e meno immediati quelli di Pericone. Tuttavia, riescono benissimo non soltanto a mostrare i loro sentimenti, ma anche ad accompagnarli con la struttura dei versi e con lo scorrere della lettura. Da questo esempio si può sentenziare sulla diversità della loro poetica? No di certo, ma era interessante vedere, per un attimo, come i nostri abbiano affrontato lo “stesso tema”. Anche Quattrone, nella postfazione a La dimora insonne, ricorda: “Due mondi si incontrano: quello della padrona di casa (da interiore divenuto esteriore grazie all’architettura linguistica) e quello del visitatore (la sua storia, la sua sensibilità). Si incontrano per vie non misteriose, ma comunque imprecisate, molteplici e complesse.”[4].

    Così al piacere intenso della lettura nascono spontanee alcune considerazioni. E smetterò immediatamente il gioco del confronto perché non si tratta di questo; l’esempio fantasmatico era solo un modo per sottolineare la lontananza delle due poetiche. Nondimeno, per la rima dei nomi, possiamo anche sentenziare che sotto il tetto di quella dimora insonne ci sono i nidi ben presenti delle rondini.

  1. Una dimora timorosa e rumorosa

     Forse il sonno è assente proprio per la presenza di rumori indicibili. Lo “sciame di voci”[5], come scrive l’autrice nella lirica di presentazione, in prosa, all’inizio del libro. Lo dice anche il titolo della prima sezione: Rumorio della cenere. Come a significare che sotto la cenere, apparentemente silenziosa, cova qualcos’altro, un fuoco pronto allo scoppio. Dimora di vestale, allora, che alimenta il fuoco sacro della poesia. La parola stessa si erge a difesa dei mostri del sonno: “Dopo i giorni / felici sono qui / a giocare alla pizia […]”[6]. Vestale, pizia, mondo antico: questa dimora profuma di un antico moderno. Quattrone richiama nella sua postfazione il Purgatorio di Dante, a noi pare – e non solo per la montagna da scalare – persino di intravedere la silhouette malinconica di Pia de’ Tolomei che appare in lontananza, ma forse è solo colpa dei fumi della pizia. Però l’atmosfera è questa. Rumoroso, certo, è anche un suono che “scudiscia” (p. 78), “è calma / che infuria”, chiassoso quindi ma non troppo, anche se infuriano le notti, anche se la parola clamore è presente (p. 16). Antitesi e ossimori onnipresenti confortano proprio l’idea di rumore fastidioso ma non troppo, come il movimento di una sinfonia allegro ma non troppo, maestoso ma non troppo, andante con moto. Pericone si sposta quasi pericolosamente da un estremo all’altro, come a volere abbracciare l’insieme dell’esistenza fuori dalla stanza per lasciarla meglio fuori dalla porta.

    I messaggi da decifrare che arrivano dal mondo extrasensoriale vengono raggruppati in un insieme di parole che s’impone per la sua preponderante sonorità, il suono -io, rumorio appunto, sfarfallio, tramestio, cigolio, brusio, fruscio, dio, pendio, oblio ma anche cartiglio, sipario, passaggio,  slancio, buio, occhio, figlio, appiglio, incendio, sortilegio, silenzio, naufragio, subbuglio, assedio, risveglio, imperio, desiderio, voglio, sbaglio, indizio, epitaffio, dettaglio, bersaglio, rigoglio…

Il tutto in un “assalto di scirocco”[7]. Il fonema /o/ è dominante, ridondante anche in questa rima interna /io/ o /jo/, e a ben guardare, giocando con gli anagrammi/sillabe à la manière de Saussure, ritroviamo questo suono perfino nel titolo: dImOra InsOnne. Non si tratta di fare della psicanalisi, una qualche lettura profonda dell’inconscio che traccia lettere come appunto la Pizia sul suo treppiede, ma solo una considerazione sulla scelta di certe parole che per caso (ma nella poesia ogni cosa è un caso non casuale, un coup de dés) è un omeoteleuto; l’io dicente si ritrova nella bellezza di queste parole con finale identica, a seconda della dieresi o meno. L’omeoteleuto traccia una specie di percorso sonoro, un’eco benefica che spiega la presenza del poeta e il travaglio (appunto) poetico mentre attraversa le stanze della dimora. Io, oltre ad essere il pronome della prima persona – e qui ritorniamo nel mondo antico – è anche quella ninfa trasformata in giovenca di cui Zeus s’innamora e che, su ordine di Era, viene fatta sorvegliare da Argo e perseguitata da un tafano (l’entusiasmo? l’ispirazione della divinità?). Infine sarà mutata in una costellazione, e lascerà il nome al mar Ionio. Ma Io è anche un satellite di Giove, che Galileo Galilei ha scoperto nel 1610, casualmente età del barocco, ma quello che ci pare singolare è che è l’unico del sistema solare, con la Terra, ad essere ricoperto di vulcani. Fuoco, eruzione, dormiveglia… Quante strade ci offre la poesia…

    Oltre che ascoltata, la parola è riascoltata a lungo perché in questa dimora vi è, come nel Croisset flaubertiano, una pièce du gueuloir, ma è un gueuloir meno irruento, più delicato e femminile, ogni parola appare attentamente scrutata, la dimora è anche un occhio invisibile che osserva, scruta e traccia una lunga lista di indizi premonitori (i cento occhi di Argo?) – per meglio frenare le conseguenze di un lungo assedio[8] – e quando i versi si mettono a prendere forma sulla pagina allora ci lasciamo incantare dalle melodie fonematiche e semantiche che ci avvolgono in una musica melodiosamente riconfortante.

Per concludere, riportiamo queste due liriche:

 

                    I silenziosi, i solitari

sostano agli angoli

coperti di lune

traversano i fuochi

e l’offesa, tralasciano

le mani voraci

 – si spostano i deserti,

 è terra temeraria

 la pazienza.[9]

 

*

 

Risento la grazia

del tuo avvento, novembre

di burrasca o ritrosia

consacra i suoi talenti.

Paesi elusivi, nostalgia

di cortili, congedano errori

a dare incerta andatura.

Ora so del dubitare

la magnificenza.[10]

 

  1. Una rondine tra grandine e solitudine

      In realtà di grandine ce n’è poca, appare più spesso la pioggia, quella che la rondine (singolare questo singolare, quando si sa che le rondini si spostano in gruppi, in stormi, per rioccupare i nidi sotto i tetti dell’anno precedente) incontra lungo la sua migrazione: “Pioveva l’anno scorso e piove oggi / piove forte dalle nuvole nere […]”[11]. Quindi dobbiamo interpretare la rondine come una metafora dell’annuncio angelico; è ciò che il poeta stesso dichiara nella nota a fine volume. Ci viene subito in mente la vicinanza con le miniature medievali, ma anche le piccole cose, che fiamminghi e francesi del nord hanno rappresentato nei particolari minuziosi delle tappezzerie e degli arazzi. Perché questa vicinanza che nasce spontanea nella nostra mente? Per tutto ciò che Alessandro Quattrone celebra. Già la rondine faceva pensare al Beato Angelico, ma poi il gatto, le foglie, il soffione (meraviglioso, p. 90), le briciole, il geco, l’insetto, sono creature e cose che attraversano il paesaggio poetico di Quattrone e impongono con discrezione la loro presenza nella luce, altro attante imponente: “Alla malinconia bisogna chiedere / di splendere ogni tanto / come una cornice dorata / quando un raggio di sole la colpisce / distogliendo la nostra attenzione / dalla notte dipinta sulla tela.” (p. 13). Malinconia come i rimpianti di Margherita d’Austria (ancora Quattrocento), la dulcis melancholia, ma appunto attraversata da mille raggi di sole. La sensazione, anche rispetto alle opere precedenti di Quattrone, è che in questo libro vi sia un concentrato di tematiche chiuse in sé stesse, meno dispersive, come a voler impedire l’intrusione disturbante di altri avvenimenti. Il poeta, concentratissimo, osserva – testimone e pittore contemporaneamente – in un’atmosfera crepuscolare (mattina e sera) intrisa di un contrasto onnipresente luce/buio, un chiaroscuro caravaggesco, dove le cose che di solito vengono nascoste appaiono qui in primo piano, mentre quelle “importanti” passano in secondo piano, scivolano lentamente nell’oscurità (gli aggettivi delle sezioni, a proposito delle rondini, puro pretesto del vedere e non vedere, sono significativi: sospese, impreviste, intraviste, riapparse). Il tutto però si bagna in una luce benefica, benevola e tranquillizzante. I quesiti rimangono sospesi nell’aria solo per smuoverci un po’, attenti a non inquietare.

    L’altro elemento che ci pare  peculiare – ma poi ogni lettore ha davanti al libro di poesia delle reazioni e dei sentimenti diversi, e detto tra noi, solo la poesia offre questo potere (anche l’amore, direte voi, ma le sensazioni poetiche sono diverse e più reali, più condivisibili di quelle amorose) –, è la presenza, tra il testo scritto e lo sguardo che avanza sulle pagine, di qualcosa che ricopre il dire, un vetro, forse un velo, una fievole cortina trasparente, che tuttavia pare creare una certa distanza, proprio come quei disegni delle miniature, umani e non. Ce lo indica il poeta stesso, dopo averlo lasciato intravedere: “Che cosa desideriamo davvero? / Il futuro? Il passato? Il duraturo? / Forse soltanto il bacio del reale / alle nostre labbra immaginarie.” (p. 31). E qualche pagina dopo, ci dà la conferma: “È un velo, non un vetro / a separare chi c’è da chi c’era […]” (p. 82). Anafore e polisindeti sono frequentissimi, permettono un’enumerazione, non tanto caotica quanto esaustiva, più sul modello di Proust o di Rilke che su quello di Rabelais o Apollinaire, secondo quanto scriveva Leo Spitzer[12].

Concluderei con due liriche, che sembrano voler inglobare tutto ciò che è stato proposto fino adesso: piccole cose insignificanti come le impronte occupano il palcoscenico poetico separato da noi da uno schermo di neve, l’oscurità del mistero. A chi appartengono non è dato sapere, e come la rondine che angelicamente ritorna sui suoi passi, anno dopo anno, anche queste impronte ci suggeriscono che la partenza è necessaria, forse vitale. È un andare nel luogo poetico perfetto, delimitato come un hortus conclusus, un microcosmo chiuso in sé stesso, tuttavia – e qui la poesia mostra il suo volto più generoso – con un’attenzione malinconica e tenera nei confronti dell’altro, di tutto ciò che è alterità, diversità:

 

Di chi sono le impronte sulla neve?

Non importa, seguiamole.

È una direzione,

e da qualche parte bisogna pur andare.

Di chi sono queste impronte?

Non si sa, ma conducono

da qualche parte

con i loro contorni netti e misteriosi

pieni di una luce impura,

e qui comunque non si può restare.[13]

 

*

 

Uno spostamento minimo

un’inflessione nella voce

un alito di vento su un filo d’erba

un raggio di luce sulla fanghiglia

un’increspatura sull’acqua

un riflesso sulla fronte –

uno spostamento minimo

e in un attimo

il mondo perde la sua stabilità

davanti agli occhi stupiti

di vedere quel che vedono

e che non avevano previsto.[14]

 

  1. Per una conclusione poco conclusiva

       L’auspicio è il seguente: non si possono ignorare due libri di questo livello, bisogna coccolarli, leggerli, rileggerli prima di riporli nella biblioteca. Sono due modi diversi di intendere e di abitare poeticamente il mondo – anche se lo sguardo pare identico poiché solo la forma cambia –, si tratta di due poetiche che ci arricchiscono indubbiamente. Nella dimora insonne la rondine è presente, anche questo si può pensare – la poesia si presta a questi giochi –, ovvero in questi due libri c’è una nota comune con una lettera maiuscola, che si nasconda in una stanza o in un uccello migratore, è pur sempre lei, duratura, inconfondibile e necessaria, Poesia.

 

 

 

 

[1] Daniela Pericone, La dimora insonne, Bergamo, Moretti & Vitali, 2020, p. 47.

[2] Alessandro Quattrone, La rondine presente, Bagno a Ripoli, Passigli, 2020, p. 72.

[3] Ibid., p. 73.

[4] La dimora insonne, cit., p. 87.

[5] Ibid., p. 7.

[6] Ibid., p. 82.

[7] Ibid., p. 50.

[8] Esogeno e endogeno: “congiura di venti / in assedio” (p. 36) “e fermo tenere l’assedio” (p. 84).

[9] La dimora insonne, cit., p.75.

[10] Ibid., p. 77.

[11] La rondine presente, cit., p.107.

[12] Cfr. Leo Spitzer, L’enumerazione caotica nella poesia moderna, in “L’asino d’oro”, n°3, 1991, pp. 92-130.

[13] La rondine presente, cit., p. 74.

[14] Ibid., p. 60.

 

in copertina di Piero Guccione, Paesaggio, 1975

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