Director Laszlo Nemes holds the Grand Prix award for the film Son of Saul during a photo call following the awards ceremony at the 68th international film festival, Cannes, southern France, Sunday, May 24, 2015. (AP Photo/Thibault Camus)
68th international film festival Cannes (Photo Thibault Camus)

 Il Cinematografo visto dall’Etna

Chiunque abbia circuitato, proprio malgrado o meno, attorno allo sconfinato e ignorato universo del cortometraggio, forse avrà già sentito parlare di László Nemes prima dell’ultimo Festival di Cannes – dal quale è uscito trionfatore con l’ambitissimo Grand Prix.
Ungherese, classe 1977, fu aiuto regia di Sua Maestà Béla Tarr, si era fatto un nome nel non troppo lontano 2007 allorquando, e ci dice molto di questo Saul Fia, partecipò in concorso a Venezia con lo splendido “Türelem” – oggi facilmente reperibile online.
“Son Of Saul” – esplicita bene la sinossi ufficiale – narra «due giorni nella vita di Saul Ausländer, prigioniero ungherese membro di uno dei Sonderkommando affiancati ai forni crematori di Auschwitz che, nel tentativo di seppellire un ragazzo che identifica come suo figlio, cerca di mettere in atto il suo impossibile piano: dare salvezza eterna a quel corpo e trovare un rabbino che gli dia sepoltura».
La prima inquadratura del film – che ricorda tremendamente l’appena citato “Türelem” – ci conduce immediatamente nei due inferni dell’opera: quello filmato, cioè l’implacabile ma compresso turbinio di uomini e donne e grida e violenza e spari e sudore e orrore, e quello filmico, cioè una camera che segue o precede ossessivamente il suo protagonista, in piano sequenza e formato 4:3, non abbandonando ma anzi amplificando l’oscenità del fuori campo e dello sfuocato.
Nemes resta incollato al suo protagonista, alla sua storia, al suo compito: una lezione che, a suo stesso dire, ha imparato a bottega da Tarr, assieme ad una «estrema attenzione per i dettagli». La macchina sta nel labirinto con Saul (uno straordinario, iconico Géza Röhrig) in una rappresentazione dell’olocausto mai come in questo caso affiancabile all’estenuante discesa nei gironi danteschi: a nessun amico, nessuna moglie, nessun essere umano è consentito l’accesso. C’è solo questo presunto figlio, simbolo di sopravvivenza, continuità, redenzione in un’altra vita, un altro mondo, un altro luogo – che è necessario raggiungere con il rito. Ogni istante, nel film, sembra l’istante buono per morire. E attorno ad Ausländer, infatti, la morte precipita senza turbamenti. «Così ci farai ammazzare tutti!», gli rimprovera un compagno nel momento chiave – dialogicamente parlando – della pellicola. «Siamo già morti», risponde gelido, ratificando una sensazione che permea ciascun secondo, sublimando quella ricerca di un senso, una direzione vera, un motivo che dia a quel brandello di vita rimasto aggrappato ad una carcassa, che corre ed esegue angosciosamente ogni ordine, semplicemente raison d’être.
Il lavoro svolto sul sonoro ha dell’incredibile: ciò che non viene morbosamente mostrato non manca, ma è anzi colmato ed oltrepassato dall’esattezza di un montaggio che affida alla memoria fotografica la documentazione del restante.
Nel momento in cui il cinema palesa ostinatamente ogni gesto (vedi il recentissimo “The Tribe”), la scelta del trentottenne di Budapest segna una terra di mezzo in cui tutto – effettivamente – è presente, ma non tutto è concesso all’occhio dello spettatore. I riferimenti, da Klimov a Loznitsa, da Lanzmann a Sokurov, sono d’impatto secolarmente monumentale.

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Uno splendido, incredibile finale in cui è possibile leggere l’avvicendamento tra Davide e Gionata, la pulsione d’un desiderio tanto folle da essere l’unica cosa sensata, l’accettazione d’un ultimo passaggio di testimone, consegna Saul Fia agli annales che gli competono, con qualche remora sul pur importantissimo premio assegnatogli. László Nemes ci ha regalato un gran film, che farà presto a classificarsi tra gli indispensabili sul tema della Shoah. Se si pensa che sia persino un debutto, viene voglia di salutare un autore che ci auguriamo possa esser presente, d’ora in avanti, nelle cineteche globali, e con molte frecce al suo arco. Chapeau.

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VOTO: 8,5

 

 

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