#1Libroin5W.: Gianni Turchetta. “Vita oscura e luminosa di Dino Campana, poeta” / Bompiani-Giunti

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CHI

Trattandosi di una biografia, Vita oscura e luminosa di Dino Campana, poeta ha ovviamente un protagonista assoluto, appunto Dino Campana (1885-1932), uno degli autori più importanti della poesia italiana dell’inizio del Novecento, autore di un unico, straordinario libro, i Canti Orfici (1914): un capolavoro assoluto, che ha lasciato una traccia profonda e indelebile nella nostra poesia. Purtroppo i programmi scolastici raramente lo toccano, e anche per questo molti non lo conoscono: e questa è già una ragione molto importante per scrivere di lui. Ma in realtà i lettori “forti” di solito lo conoscono, e i suoi fans sono in realtà tantissimi, molti più di quanti potremmo immaginare. Campana ha avuto un’esistenza romanzesca, dolorosa e affascinante, fin troppo esemplare. Questo rende la sua vita di grande interesse, anche solo per quello che vi accade, ma espone al rischio di confondere il disagio esistenziale di Campana con la profondità e complessità della sua poesia. Ci tornerò fra poco: ma mettiamo subito bene a fuoco che non c’è nessuna mistica coincidenza fra Poesia e Follia, e che Campana non è un “poeta maledetto”, nonostante la sua vita tormentata, che ora riassumerò per sommi capi: non lo è perché non ha mai fatto della propria condizione di squilibrio una poetica, una bandiera, esibendola come una specie di eroismo, ma l’ha patita e basta.
La sua vita è comunque davvero una vita tormentata, “spericolata”, e spesso avventurosa. Nato a Marradi, cittadina dell’Appennino tosco-romagnolo, dove si parla un dialetto romagnolo, anche se formalmente è in provincia di Firenze. Marradi sta nella valle del fiume Lamone, sulla cosiddetta faentina, la strada che collega Faenza a Firenze. Qui Campana va maturando dopo i vent’anni una profonda vocazione alla poesia, che rafforza e matura leggendo moltissimo, e co-struendosi una cultura aggiornatissima e vastissima. Va ricordato che Campana leggeva corrente-mente in francese, tedesco, inglese e spagnolo. Colpito a quindici anni da un profondo squilibrio psichico, che lo spinge a vagabondare continuamente e che gli procura accessi d’incontrollabile furore, viene più volte rinchiuso in carcere e in ospedali psichiatrici. Incapace di stare fermo e di dare un ordine alla propria quotidianità, per molti anni viaggia in continuazione, sperimentando ogni sorta di mestieri precari per sostenersi: fra le altre cose, fa l’operaio edile in molti cantieri di strade e trafori (in Svizzera), il fuochista e il mozzo su navi mercantili, il suonatore di pianoforte in un bordello, il portiere in un circolo, il pompiere-poliziotto (in Argentina), lo sterratore nelle ferrovie l’arrotino, forse il “venditore di stelle filanti” e il gestore di un tiro al bersaglio con degli zingari. Intanto percorre l’Italia, spesso compiendo a piedi percorsi lunghissimi, specie in Toscana, Romagna e Umbria; ma arriva anche a Milano, poi passa le Alpi e va in Svizzera, Francia, Belgio, forse anche in Russia; nel 1907 s’imbarca per il Sud-America e sbarca a Buenos Aires, attraversa l’Argentina; poi di nuovo sbarca nel nord Europa, torna a Marradi, riparte, e ancora torna, riparte, torna, infinite volte. Nel frattempo, “in varii intervalli della sua vita errante”, come dice egli stesso, Campana scrive e riscrive il libro che avrebbe dovuto costituire il significato ultimo, addirittura la “giustificazione” della sua vita. I Canti Orfici, usciti proprio mentre sta scoppiando la Prima guerra Mondiale, gli permettono di farsi conoscere negli ambienti letterari che contano, ma certo non risolvono i problemi materiali della sua vita. Nell’estate del 1916 ha una travolgente, lacerante storia d’amore con la scrittrice Sibilla Aleramo, grande punto di riferimento del primo femminismo per il suo romanzo autobiografico Una donna. Con Sibilla Dino spera di trovare un equilibrio anche sentimentale; ma la passione di fatto contribuisce a sgretolare il suo già fragile equilibrio psichico: preda di irrefrenabili impulsi aggressivi, Dino, dopo un primo periodo quieto, comincia ad alternare alle manifestazioni d’amore gesti violenti. Sibilla prova a resistere, spera di poterlo cambiare: poi a un certo punto deve fuggire. Le condizioni di Campana stanno peggiorando drammaticamente. Nel gennaio 1918 viene internato in manicomio: ne uscirà soltanto con la morte, nel marzo 1932.

COSA

In prima approssimazione, dunque, Vita oscura e luminosa di Dino Campana, poeta racconta la biografia tormentata del poeta di Marradi. In realtà però con il mio libro ho cercato di fare qualcosa di più, di mettere un po’ di ordine nell’immagine di Campana, che è stato idolatrato o disprezzato per motivi opposti e complementari: come pazzo divino e sublime, dai suoi fautori (non di rado un po’ esaltati e irrazionali…), o viceversa come poeta di limitati mezzi espressivi, diventato noto e sopravvalutato grazie alla sua spettacolare vicenda esistenziale. Da molti anni, anzi ormai da quattro decenni, studio e scrivo perché la storia di Campana sia soprattutto uno strumento per capire l’eccezionalità della sua poesia, al di là della sua vicenda biografica, che pure è necessario capire. Cerco così di mettere a fuoco la complessità delle sue vicende psichiche, le dinamiche che hanno generato il suo squilibrio, le circostanze familiari, storiche, personali, che hanno prodotto quegli effetti: effetti che non sono fatali, ma storicamente determinati, e che chiamano in causa le contraddizioni e i conflitti della società del tempo, dove le figure di intellettuali sradicati, emarginati, nevrotici o psicotici si vanno, non a caso, moltiplicando. Potremmo arrivare a dire che forse per Campana le cose avrebbero potuto anche andare in un altro modo: basti pensare che egli fu spinto dalla famiglia a studiare Chimica, perché si voleva che diventasse un farmacista. Ma lui stesso ha spiegato, molto ragionevolmente, che se avesse studiato Lettere forse avrebbe potuto trovare un equilibrio. E certo l’Italia di inizio Novecento non era per nulla disponibile alla comprensione e all’indulgenza verso gli “irregolari”. Nel mio libro cerco di mettere insieme tutto quanto possibile (documenti d’archivio, testimonianze, studi vari) per restituire alla personalità di Campana la sua complessità, non lineare e non unilaterale: egli, per esempio, era anche uomo capace di godersi la vita, molto di più di quanto non si sia detto di solito, anche per alimentare il mito del poeta “maledetto” e fatal-mente infelice. Ma si sa che ai letterati piace piangersi addosso. Abbiamo invece bisogno di ritrovare Campana in tutta la sua umanità, controversa, spesso straziante, ma vitale, affermativa, continuamente segnata dalla percezione estatica della bellezza del mondo, sia della natura, sia delle opere dell’uomo. Tutto questo significa anche proporre, con sobrietà e con determinazione, un’interpretazione non solo della sua vita, ma anche della sua poesia: in forma sintetica, perché si tratta di una biografia e non di un saggio tecnico di critica letteraria, ma formulando idee forti, che mostrano, in ultima analisi, quanto la poesia di Campana, frutto di un progetto consapevole, perseguito con lucida determinazione, e non certo di una trance mistica, sia ancora attuale, capace di coinvolgerci e parlarci perché parla anche di noi, mettendo in scena le dinamiche emotive e psicologiche della modernità.

QUANDO

La prima idea di scrivere la biografia di Dino Campana non l’ho avuta io, ma l’amico Marco Zapparoli, fondatore della casa editrice Marcos y Marcos, molti anni fa: precisamente intorno al 1983. Nel 1981 il giovanissimo Marco Zapparoli aveva appunto fondato la sua casa editrice, diventata presto un’importante realtà dell’editoria italiana. Io ero uno studente universitario, e stavo concludendo la mia tesi di laurea: dedicata sì a Campana, ma alla sua poesia. Era infatti una ponderosa interpretazione dei Canti Orfici (350 cartelle), che discussi nell’aprile 1983 all’Università Statale di Milano, dove poi sarei diventato docente, sotto la guida del grandissimo critico Vittorio Spinazzola: lo voglio ricordare, anche perché è per me un autentico Maestro (metto apposta la maiuscola), e perché è mancato nel febbraio di quest’anno. Ero innamorato della poesia di Campana, ma non avrei mai pensato di dedicarmi al racconto della sua vita. Sempre nel 1983, a settembre, la mia tesi venne premiata con il Premio Dino Campana per Tesi di laurea inedita, istituito dal Comune di Marradi, grazie al carismatico sindaco Enrico Consolini, a cui sarebbe poi stato dedicato l’attivissimo, prezioso Centro Studi Campaniani di Marradi. Racconto questa vicenda perché sarebbe stata decisiva per la mia vita: infatti proprio a quell’epoca Marco Zapparoli stava progettando di pubblicare una biografia di Campana, con un ricco apparato fotografico, a mo’ di libro d’arte, in occasione del centenario della nascita, nel 1985. Aveva per questo bisogno di trovare uno specialista: il comune amico Paolo Giovannetti, a sua volta critico di grande spessore, gli segnalò le mie competenze. Così mi incontrai con Zapparoli, e con Marco Sansoni, che con lui gestiva Imagommage, una piccola intrapresa editoriale consociata con la Marcos y Marcos. Il progetto prevedeva che ci fossero, oltre alle foto di repertorio, anche foto artistiche sui luoghi campaniani, realizzate da Maurizio Montefiori, bravissimo fotografo di Casola Valsenio, paese vicinissimo a Marradi. Potete immaginare la mia gioia e il mio entusiasmo: nel 1983 avevo solo venticinque anni, e c’era un editore che mi proponeva nientemeno che un contratto per pubblicare un libro sul poeta che amavo appassionatamente. Non potevo desiderare di meglio. Uscito nel maggio 1985, Dino Campana, biografia di un poeta è stato però solo l’inizio della lunga storia delle mie pubblicazioni su Campana. Come libro d’arte, era nato senza note. Poi però, visto il buon esito di pubblico e di critica (vinsi anche un premio di un certo prestigio, il Sergio Antonielli per la critica, in Franciacorta, con una giuria composta nientemeno che da Maria Corti, Giovanni Giudici, Giovanni Raboni, lo stesso Spinazzola e Lento Goffi, critico e poeta bresciano), decidemmo di farne una nuova edizione, con un sobrio apparato di note, uscita nel 1990, di nuovo per la Marcos y Marcos. Una decina di anni dopo tornai a riprendere in mano il mio libro, e lo aggiornai ancora robustamente, pubblicandone una nuova versione, molto aggiornata e arricchita, con alcuni cambiamenti nella struttura narrativa, presso Feltrinelli, nel 2003. Ma quando lo riproposi a Bompiani, poco meno di tre anni fa, volevo fare un libro molto diverso: ripensarlo un po’ tutto, riscriverlo da cima a fondo, rendere molto più robusto e completo l’apparato documentario, riprendere le fila degli studi campaniani degli ultimi vent’anni circa, che hanno portato molti importanti risultati, e anche dare uno spazio più ampio alle testimonianze delle persone che hanno conosciuto davvero Campana, per arricchire e chiaroscurare la rappresentazione della sua complessa personalità. C’è stato parecchio da fare, e comunque ne è venuto fuori un libro davvero molto diverso: a cominciare dal fatto che la biografia precedente aveva 240 pagine, e questa 460. Mi dicono che comunque si fa leggere… Insisto nel sottolineare che, anche se le mie idee di fondo sono rimaste in buona misura costanti, Vita oscura e luminosa di Dino Campana, poeta è davvero un’operazione editoriale piuttosto diversa. Con la presunzione di farne un punto di riferimento per gli studi sul poeta di Marradi, quasi un punto di ri-partenza. Ma soprattutto, con il desiderio di far conoscere ancora di più la poesia di Campana, di farlo leggere, di fare sentire a molti quante emozioni è in grado di darci.

DOVE

Mettendo da parte la storia editoriale, posso comunque dire che la mia voglia di occuparmi di Campana è ancora più antica. È nata a Milano, fra le aule del Liceo e la casa in cui abitavo allora. Intorno ai miei quindici anni, quindi nel remoto anno 1973, ero un adolescente… normale, e quindi normalmente tormentato, come si può essere a quindici anni, alle prese con i primi amori, anzi con il mio primo grande amore, ovviamente infelice, più o meno… Mi sentivo, ed ero realmente, carico di emozioni violente, e anche di voglia di esprimerle. La mia professoressa di Lettere del Ginnasio, che voglio qui ricordare, Brunilde Baglio, al Liceo Classico Beccaria di Milano, ci stava facendo leggere, come capita al biennio delle Superiori, vari autori, specie poeti, che mi affascinavano e mi aprivano mondi di espressività mai sospettati. Fui colpito al cuore da Baudelaire, di cui trovai in casa l’antica traduzione in prosa di Riccardo Sonzogno de I fiori del male: la presenza di quel volumetto ormai molto consunto mi mostrava peraltro che anche mio padre aveva amato Baudelaire. Fu una rivelazione, e un’emozione profonda, che sta certamente alla radice della mia successiva decisione di dedicarmi professionalmente alla letteratura. Sentivo, anche se non potevo capire più di tanto per i miei limiti culturali di ragazzino, che quelle poesie parlavano anche di me, che mi consentivano di dare corpo ai miei sentimenti e ai miei fantasmi. Letto Baudelaire, volli saperne di più, e cominciai a comprarmi o a farmi regalare libri di poesia fra metà Ottocento e Novecento, che leggevo senza nessun ordine e con pochissime cognizioni, ma con intensa, profonda passione: Garcia Lorca, Neruda, Prévert, Hikmet, Brecht, l’espressionismo tedesco, e poi presto, in particolare, la poesia francese del Simbolismo e dintorni: Verlaine, Mallarmé, Rimbaud, e poi Nerval, Lautréamont, Laforgue, Corbière… A quel punto però mi resi anche conto che non sapevo praticamente niente della poesia italiana, a parte, in buona sostanza, Ungaretti e Montale, che pure leggevo appassionatamente, capendo quello che potevo capire… Ma, di nuovo, con grandissime emozioni, e effetti duraturi sulla mia percezione del mondo e di me stesso. Decisi allora di cominciare a conoscere la poesia italiana del Novecento, e mi comprai l’edizione economica della provocatoria e autorevolissima antologia di Edoardo Sanguineti. Era il 1974. Leggendola pagina dopo pagina, come un romanzo, arrivai all’espressionismo vociano e a Dino Campana, che Sanguineti giustamente esalta. Mi misi a leggerlo. La prima poesia era La chimera: ne fui letteralmente sconvolto, estasiato e commosso fino alle lacrime. Un amore a prima vista, davvero. Un amore che non mi ha mai più lasciato, e che mi accompagnerà per tutta la vita. Esagerando un po’, perché a quell’epoca tutto era ancora possibile, e certo non potevo sapere quali studi avrei fatto all’Università, stavo in qualche modo già avviandomi inconsapevolmente verso la futura scelta dell’argomento di tesi di laurea, e quindi verso l’avvio di una conoscenza professionale di Campana. Mi comprai l’Oscar Mondadori Canti Orfici e altri scritti, e piano piano cominciai a conoscere un po’ di più quel poeta. Quarantasei anni dopo, non ho ancora smesso…

PERCHÉ

In fondo il motivo primo, antico, che sta dietro il mio libro è, lo avete appena visto, un amore profondo per la poesia di Campana. Quando lo lessi per la prima volta non sapevo praticamente nulla della sua biografia. E anche negli anni universitari ho studiato soprattutto quella che resta la ragione profonda per scrivere di Campana, e per leggere il mio libro: la sua straordinaria poesia, con la potenza incantatoria dei suoi ritmi e delle sue parossistiche ripetizioni, l’intensità sconvolgente delle sue immagini e dei sentimenti che trasmette, la stupefacente coesistenza di luce e buio, di felicità e tragedia, estasi e lutto. Continuo a pensare che sia giusto e necessario far conoscere la storia di Campana perché questa possa essere uno strumento per farlo leggere, per continuare a farlo vivere nella memoria collettiva e dargli, se possibile definitivamente, il posto che gli spetta non solo nella letteratura italiana del Novecento, ma anche nella letteratura e nella cultura europee. Questo significa anche avere davanti sempre un assunto fondamentale: Campana va letto perché la sua poesia ci dice qualcosa su di noi e sulle nostre emozioni, sulle contraddizioni, sulle ambivalenze che sono al cuore della psiche dell’uomo moderno. Il mio amore non è certo una fissazione tutta mia, idiosincratica e personalissima: ci sono tantissimi innamorati di Campana, e questo accade perché la sua poesia ci parla, con straordinaria intensità. Perché, dopo oltre un secolo, è ancora un libro che ci parla, che tocca le dinamiche profonde della nostra psiche e della nostra società. Quando ho provato a proporlo ai miei studenti ho sempre prodotto in loro un entusiasmo travolgente: un segnale ine-quivocabile che Campana ci parla, ci parla ancora, eccome. Complementarmente, scrivo di Campana perché è necessario liberarlo dai pregiudizi: anzitutto, dalla micidiale mitologia romantica della convergenza fra poesia e follia. Come insegna Michel Foucault: dove c’è opera non c’è follia. La concentrazione e l’intensità cognitiva richieste dalla scrittura non vanno affatto d’accordo con la deriva della psicosi. Non a caso, quando Campana peggiorava non riusciva più a scrivere, e durante l’internamento non scrisse mai: “Scrivere non posso, i miei nervi non lo tollerano più” confessa nel 1916 a Mario Novaro. Scrivo di Campana, dunque, per la necessità di mettere fine a un intrico di luoghi comuni, alla mitologia che troppo a lungo ne ha intorbidito l’immagine e la lettura, per liberarlo da troppe ipoteche e troppi stereotipi, che a volte accomunano i suoi fans e i suoi detrattori. Banalmente, c’è bisogno che, finalmente, si legga Campana come uno scrittore e poeta: voglio dire, non come uno scrittore-pazzo, ma come uno scrittore e basta. Proprio per questo bisogna capire meglio che cosa è stata la sua vita: che è “oscura” perché dolorosa, piena di sofferenza, sventurata e persino tragica; ma è indiscutibilmente “luminosa” perché ha saputo lasciarci in dono i Canti Orfici e la sua poesia.

 

 

Passi dal libro (copyright Bompiani/Giunti 2020)

 

[Dal capitolo 7. Sotto un cielo «non deturpato dall’ombra di Nessun Dio»]

1907: Dino Campana in partenza per l’Argentina

Nella tarda estate del 1907 il desiderio del viaggio sembra orien­tato da una suggestione precisa. Questa volta Dino sa dove vuole andare: fosse semplicemente seduzione dell’avventura, o pesasse anche (con la complicità, come vedremo, della poesia di Walt Whitman, uno degli autori da lui più amati) il fascino culturale del “Nuovo mondo”, così adatto a rafforzare i sentimenti e le mitologie di rinnova­mento universale, Dino “decise di andare in America”: per la precisione a Buenos Aires. Come accoglies­sero i suoi questo progetto, lo si può immaginare: tanto più che, in questa ennesima stranezza, essi vedevano non senza ragione una fonte di preoccupazioni e grattacapi anche peggiori di quelli avuti fino ad allora. Perso per perso, sembra che, a questo punto, i Campana abbiano smesso di op­porsi, preoccupandosi invece, intelligentemente, di non perdere di vista il ragazzo (nel 1907 Dino aveva ventidue anni), e di cercare di ridurre i possibili pericoli. […] le testimonianze familiari, come vedremo, ci dicono che “Dino andò in Argentina a seguiti di accordi epistolari e col biglietto pagato”. […] Come ricorda il fratello Manlio:

io stesso lo accompagnai alla stazione quando Egli partì per imbarcarsi a Genova, bene equipaggiato, accompagnato fin sul piroscafo da nostro zio Torquato […] e con lettere commendatizie per un farmacista di Buenos Aires presso il quale aveva già ottenuta assicurazione di impiego (essendo Egli virtualmente laureando in Chimica, e di fatto, già fuori corso) e che invece fu da Dino piantato in asso appena 48 ore dopo il Suo arrivo, avendo preferito unirsi ad una carovana in partenza per la Pampa.

[…] Ad ogni modo, con ogni probabilità è il padre, Giovanni, a occuparsi delle pratiche per il passaporto. Già da alcuni anni possediamo i documenti relativi. […] la documentazione deriva direttamente dal Registro Passaporti del Comune di Marradi, dal quale apprendiamo che Campana Dino, di Giovanni, di professione “scrivano”, ha ottenuto in data 7 settembre 1907 il passaporto, rilasciato esplicitamente per andare a “Buenos Ayres”. Inoltre, il suddetto passaporto risulta essere stato consegnato “al padre” dell’interessato (particolare certo non privo di rilievo), in data 9 settembre 1907.[1]

Non sappiamo con precisione quando Dino sia poi partito: con ogni probabilità, tra la fine di settembre e l’ottobre 1907. […] Anche se non danno certezze assolute, sono nel complesso solidamente convergenti, pur con qualche variante e l’incertezza su alcuni dettagli importanti, le testimonianze dei familiari, da cui sappiamo grosso modo come avvenne la partenza, e come andarono le cose subito prima. Dino partì sicuramente con il solo biglietto d’andata, Genova-Buenos Aires, acquistato quasi certamente dal padre. […] Sappiamo anche, come visto, che i genitori avevano fatto in modo che Dino, arrivando a Buenos Aires, avesse un alloggio e un robusto punto di riferimento in una famiglia amica che risiedeva nella capitale argentina. […] Nei giorni immediatamente precedenti la partenza Dino va a Fi­renze, e suo padre, che vuole tenerlo d’occhio per quanto è possi­bile fino all’ultimo, dà incarico al fratello Torquato di accompa­gnare Dino all’imbarco, a Genova. A questo punto però si verifica un inconveniente inatteso: Torquato va, come stabilito, a Firenze a prendere il nipote, accompagnato da Manlio, il fratello di Dino. Ma, fosse perché di solito sfuggiva il fratello, fosse perché, in un’enne­sima contraddizione, aveva ora deciso di non partire più, Dino si rende irreperibile. Tuttavia quando, dopo due giorni di ricerche, Manlio riesce finalmente a scovarlo, alla notizia che lo zio era lì ad aspettarlo Dino, immediatamente rabbonito, lo raggiunge, e parte con lui alla volta di Genova. Un po’ diverso è il racconto della moglie di Torquato, la zia Giovanna, detta Gina; secondo la sua testimonianza Dino rischiò addirittura di perdere la nave:

Quando decise di andare in America suo padre non si fidò di dargli i denari del viaggio e pregò lo zio Torquato di andare con Dino ad accompagnarlo fino a Genova. Lo zio accettò e quando furono a Genova Dino disse che aveva d’andare in un posto e si assentò. Combinarono di trovarsi al porto. Ma le ore passavano e Dino non si vedeva, si può immaginare l’ansia e la pena del povero Torquato perché il bastimento stava per partire. Finalmente arrivò Dino proprio appena in tempo per salire.

In un’intervista a Gabriel Cacho Millet, il figlio di Torquato e Gina, Raffaello, detto Lello, aggiunge altri particolari rilevanti:

Mio padre […] accompagnò Dino fino a Genova e gli comperò alcuni libri e una rivoltella. Quella pistola belga, a tamburo, calibro 38, restò in questa casa (Dino se la portò dietro tornando dall’America) fino alla seconda guerra mondiale.

E chissà quale era lo stato d’animo dello zio nei confronti di quella calibro 38, forse più inquietante che rassicurante. Fra i libri che Dino porta in Argentina, necessariamente pochissimi, c’è sicuramente Leaves of Grass di Walt Whitman, che “lo entusiasmava” ed era già per lui un libro di riferimento. […] È comunque davvero difficile sottovalutare la forza della suggestione del grande bardo americano sulla poesia di Campana, che a quest’altezza cronologica ha con ogni probabilità già cominciato a scrivere, e avviato il percorso, di pratica della scrittura e di consapevolezza della propria vocazione, che nel giro di pochi anni lo condurrà ai Canti Orfici.

 

[1] ACM, Registro rilascio passaporti per l’estero, n. d’ordine 3474. […]

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